D’inverno, la mattina presto, quando fuori era ancora buio e freddo, ci svegliavamo spesso con il rumore soffiante della pedivella di una moto e poi, dopo una sfilza di bestemmie, sempre più forte, inanellata, veloce e fantasiosa, con il trottolare di un motore della Guzzi rossa di Tamburino.
Sì, perché Tamburino, Carlo Mazzei, il babbo di Renzo Tamburino e dei suoi 5 fratelli e sorelle e marito di Franceschina, metteva in realtà in moto la sua Guzzi rossa a bestemmie. Senza una sfilza di moccoli ben concatenata, la moto l’inverno – e anche in qualche mattina frizzante di primavera o di ottobre - non partiva, non si scaldava, non si accedeva.
Anche perché Tamburino teneva la Guzzi non sotto la volta che buca le case, dove passa la strada per scendere da San Francesco alla Marina (come facciamo io e altri oggi con scooter e moto) , ma accanto al muro non ancora ricoperto dalla Bouganville di Maurizio Volterra, subito dopo l’imbocco per il sentiero di San Giovanni che allora non era interrotto dalla strada asfaltata di Via Pocar, ma passava tra vigne invisibili, continuando il percorso tra gli alti muri murati che era interrotto solo dalla chiesa e dalla chiostra di San Francesco e dalla fila di case di via del Ruotone e poi dal grumo nascosto del quartiere di Risecco.
Probabilmente Carlino metteva la moto lì, sotto la scritta VIVA VERDI scalpellata sul muro nell’800 da qualche carbonaro marinese, perché aveva paura che gliela urtassero le macchine che allora passavano ancora - in entrambi i sensi – per l’acciottolato di sassi di spiaggia e le lastre di granito di via San Francesco, infilandosi sotto la volta e poi passando a pelo nella strettoia sotto la casa dei Puppo.
Dietro uno di quei muri alti, subito dopo l’orto di Ada e Terzo, davanti alla chiesa, di fronte alle vigne di Giovannone, dove Frau avrebbe costruito con le sue mani la casa per la sua amata famiglia, c’erano le vigne di Franceschina e di Carlino, dei Tamburini, che arrivavano, insieme ad altre, fra bassi salti di pianura sassosa, fino al palazzone e al garage di Agostino Buoncuore e da dove spesso veniva, gratis o in cambio di acciughe, zeri e frugaglie, un po’ di verdura, uva e frutta per la nostra povera tavola. E a quella tavola a volte si invitava Renzo Tamburino che però aveva uno strano modo di entrare in casa nostra: si attaccava alle sbarre della finestra cantina di Dino, tra il ballatoio di granito di casa nostra e la volta e, con un balzo da scimmia acrobata, afferrava la soglia della nostra finestra al primo piano, la sua faccia abbronzata e sorridente sbucava in cucina e, con un altro salto, atterrava sui mattoni sconnessi che ci facevano da pavimento.
Renzo Tamburino era un terremoto energico, come sua sorella Nisia che mi ricordo sempre sorridente, bella , forte e scanzonata, come una pubblicità su Carosello di qualche corroborante alpino, e che poi andò sposa a un pescatore ponzese di Marina di Campo. Gli altri tre fratelli erano più calmi, compreso il piccolo, Alessandro, con l’anima da pescatore come Renzo, coetaneo e amico per sempre del mi’ fratello Edoardo che vive ancora nella casa dei Tamburini a San Francesco e lavora sui traghetti che attraversano il Canale.
Poi la moto rossa di Tamburino smise di tossire la mattina presto rispondendo alla litania di bestemmie e Carlino si ritirò con Franceschina a godersi la sua breve pensione alla Camola, la collina che chiude la piccola valle, allora verde di campi d’erba e attraversata da un viottolo, che sale da Ruotone verso la Costarella.
Ogni tanto andavamo a trovarli, a mangiare in campagna che per noi era come fare una vacanza piena di scoperte, a bere vino robusto e a mangiare coniglio e galline ruspanti con la carne dura.
E’ in quel ritiro di pace che Carlino e Francesca lasciarono che la stirpe di Tamburini si spargesse per l’Elba e per il mondo, come un ricordo che non scompare.
E’ anche oggi, quando il mio motorino asiatico sente il tempo, sputa, ansima e non parte, mi sembra di sentire la litania mattutina di bestemmie di Carlino Tamburino, come una preghiera blasfema, che alla fine qualcuno ascolta. Forse il Dio dei carburatori e delle marmitte.
Umberto Mazzantini