Le lucertole hanno il cuore in gola. Glielo vedi battere sotto la pelle di piccolo dinosauro mentre stanno immobili a testa i giù su un muro, o ritte e impavide su un sasso in mezzo a un campo dopo una zuffa con un rivale. Oppure mentre guardano il mondo di sbieco, col capo reclinato, che esce dal buco nei sassi murati che gli fa da tana minima e da incubatrice per uova bianche, piccole perle fragili e umide, che a volte trovavamo alzando i sassi.
Le lucertole sono veloci quanto il loro cuore che gli batte in gola, ma quelle dei campi, verdissime, a volte quasi bianche, percorse da strisce di ogni gradazione di verde, che correvano tra l’erba con le zampe aperte, quasi come fosse acqua sulla quale galleggiare, sono quasi scomparse. Resistono, seppur decimate quelle dei muri, brune come un piccolo varano. Resistono anche alla scomparsa dei muri a secco e degli insetti.
Erano queste le lucertole che cacciavamo nei nostri giorni crudeli, quando non era ancora arrivato San Giovanni per poter fare il bagno in mare, o nei caldi pomeriggi di luglio e agosto, dopo mangiato, rosi dal salmastro e dalla noia, o nelle mattine ancora fresche d’estate, quando le lucertole erano così sazie di sole da esserne ubriache oppure devono ricaricarsi dopo una notte passata nelle loro fredde tane di granito e malta sotto le stelle.
Coglievamo i passasacchi e spiumavamo i lunghi steli dall’esercito allineato di semi simili ai razzi che si vedevano sulle copertine dei fumetti di fantascienza, ma uncinati in cima, tanto che ce li tiravamo per contare quanti ce ne rimanevano attaccati addosso ed ognuno era un figliolo futuro che avremmo avuto, anche se non avevamo nessuna vera idea di come si facesse a farli. Poi, sulla punta, sottile come un filo da cucito di quella canna da pesca filiforme e ondeggiante, facevamo un nodo scorsoio, un cappio che trasformava lo stelo in una forca.
Quel patibolo portatile serviva per prendere le lucertole. Ci avvicinavamo ai muri e, quando la nostra vittima si era calmata o incuriosita, tranquillizzata dalla distanza di sicurezza tra lei e quelle strane scimmie vestite, piano piano facevamo passare il cappio vegetale davanti al muso scamoso del piccolo sauro, poi lo facevamo scendere fino al collo e con uno strattone le lucertola restava impiccata, ma viva e sbalordita, a quella strana canna per quella strana pesca, Restavano appese e mute, ondeggianti con la pancia chiara in vista e le zampe spalancate come un piccolo Cristo quadrupede, senza però perdere quel ghigno preistorico e quello sguardo accigliato che hanno i rettili.
La nostra caccia non si fermava alle lucertole, prendevamo anche i più difficili catarulli (quelli bianchi e grossi che la notte mangiano falene sotto il lampioni e quelli più piccoli e neri, rugosi e bitorzoluti, che a volte fanno capolino dai muri anche di giorno), mai i ramarri, saette verdi e gialle nell’erba.
Una volta scoprimmo dei ramarri così grossi che credevamo fossero dinosauri, se ne stavano appollaiati su un grosso masso triangolare in mezzo all’uviale secco di San Giovanni, davanti alla briglia dietro alla quale poi sarebbe stato costruito un ristorante. Erano tre grossi rettili alteri, di un verde scuro che verso la testa diventava blu, che facevano, ognuno a uno dei vertici del masso triangolare, una strana danza immobile con scatti della testa e movimenti minimi delle zampe. Una sfida che restammo affascinati a guardare per minuti fino a che per un qualche sconosciuto segnale, i ramarri abbandonarono, lenti e guardinghi come coccodrilli, quel masso che ora non c’è più, portato via probabilmente dall’alluvione del 2002 o da una ruspa.
La caccia alle lucertole ci aveva preso così tanto la mano che Roberto il Pitturino aveva fatto un punteggio per certificare la nostra abilità di pescatori da muro: una lucertola muraiola valeva un punto, una lucertola campestre con i suoi colori di primavera di più, un catarullo parecchio di più, un serpente e un ramarro facevano saltare il banco.
E una volta saltammo noi, ma di paura. Eravamo a caccia nello stradello che dall’Orzaio porta a Siccione, lungo i muri che allora difendevano ancora qualche vigna e orto, e Cicchetta, con il suo lungo cappio in mano vide uscire da un buco tra i sassi un capo chiaro di una grossa e strana lucertola, con gli occhi tondi e un sorriso crudele. Mise il cappio intorno alla testa della sua vittima, tirò e dal buco uscì un serpente fine chiaro come l’erba tagliata, lungo quanto lo stelo di passasacco che si piegò per il peso della bestia che si divincolava ondeggiante. Il giovane biacco, incredulo per il volo, si rivoltò e venne verso di noi non certo per coraggio, ma per confusione e i coraggiosi cacciatori che eravamo se la dettero a gambe. Ma, passati i fichi d’india, arrivati alla discesa che porta alla Soda, dove c’era la casa di Lante, alla paura si sostituirono le risate ansanti di un pomeriggio d’estate cominciato in gloria, con qualcosa da raccontare in eterno e che probabilmente si sono scordati tutti meno io.
Eravamo cuccioli crudeli, come i gatti che le gatte addestrano alla vita con piccoli topi o lucertole che perdono disperatamente la coda. Ma, dopo aver fatto un mazzo di cappi con appese lucertole sgambettanti, alla fine le lasciavamo andare, a volte con il loro provvisorio guinzaglio e altre glielo toglievamo con attenzione difficile. Ed era allora che quegli esseri perfetti, setosi, con la pelle liscia e stranamente abrasiva come quella di un pescecane, si vendicavano mordendoci le dita liberatrici con i loro piccoli denti uncinati.
Ripensandoci ora, non ci hanno mai morso abbastanza per punirci della nostra innocente crudeltà di cuccioli d’uomo annoiati.
Umberto Mazzantini