A proposito del centenario della distruzione del Ponticello vorrei portare qualche nota delle mie ricerche su una delle opere difensive più significative della piazzaforte di Portoferraio. Tuttavia mi associo con Giovanni Frangioni affinché venga meglio valorizzata questa importante pagina di storia elbana.
In realtà parlare del 1921 come anno della fine del Ponticello è inesatto. Infatti fu un'operazione che richiese almeno cinque anni, dal 1920 al 1925, portata avanti con molte difficoltà.
Le prime intenzioni di interrare il fossato nacquero nell'ultimo scorcio dell'Ottocento. Il fossato, peraltro fin dalla sua nascita, nella prima metà del Seicento, aveva dato problemi di acqua stagnante e malsana, in certi periodi, di correnti impetuose, tanto da fare danni ai parapetti, e interramenti del fondo, che costringevano a frequenti dragaggi. La manutenzione era ormai rara, in quanto l'importanza militare di Portoferraio era in forte calo da almeno mezzo secolo. Oltre l'interramento del fossato si pensava infatti di distruggere le batterie che su di esso si affacciavano.
Ma il progetto si fece fortemente serio nei primi anni del Novecento. Erano infatti nati gli altiforni, con la conseguente impennata demografica della città: se nel 1901 i portoferraiesi erano 5987, dieci anni dopo quasi raddoppiarono a 9537. Si ebbe un'autentica crisi abitativa, in alcuni casi con effetti drammatici (sovraffollamento di stabili malsani e senza acqua). Il patrimonio abitativo, fino ad allora concentrato all'interno delle mura medicee, non era sufficiente per accogliere gli immigrati impiegati nell'industria. Nacquero quindi complessi abitativi, come gli Altesi Nuovi, in quelle che erano allora le campagne fuori città e oggi è il nucleo moderno di Portoferraio. Fu una crescita urbanistica veloce e caotica, praticamente lasciata al caso, e che in alcuni casi cancellò opere difensive secolari. Essendo l'area del Ponticello una piccola piana, si pensò di sfruttarla in senso edilizio.
Tuttavia il fossato non poteva essere toccato finché rimaneva area demaniale. Il comune avviò trattative per acquisirlo, che si conclusero nel 1918. Il fossato fu comprato per 700 lire “per riempirlo e costruire dentro l'alveo del medesimo un fognone collettore da sboccare nella prossima spiaggia del mare […] allo scopo di risanare le località circostanti”.
Passano due anni e ci ritroviamo in quel periodo storico che prende il nome di “biennio rosso”. Il proletariato italiano era in una fase calda, galvanizzato anche dalla vittoriosa Rivoluzione russa. Tutto il mondo borghese e conservatore del paese era terrorizzato che la classe operaia italiana imboccasse la stessa strada. Anche gli operai di Portoferraio erano in una fase arroventata: da mesi si susseguivano voci di chiusura degli altiforni. In realtà non c'era niente di serio, ma era solo un ricatto dei padroni delle ferriere per strappare concessioni dal governo e migliori trattamenti dagli istituti di credito. Che tuttavia stava esacerbando gli animi della società elbana.
Il 27 giugno 1920 era stato proclamato uno sciopero generale, che raggiunse momenti drammatici. Una delegazione operaia si incontrò col sottoprefetto e il commissario regio per chiedere uno spazio per destinarvi la camera del lavoro e l'abolizione della tassa di famiglia. Ma le rassicurazioni delle autorità non convinsero i lavoratori, che decisero per lo sciopero a oltranza. Il clima era esplosivo. “La sera, nel corso di un comizio”, scrive Alfonso Preziosi, “fu deciso l'intervento in massa per impedire il servizio già predisposto della banda cittadina in occasione delle feste lauretane. Circa cinquecento operai entrarono compatti in piazza Cavour cantando inni proletari; in rinforzo ai carabinieri e alle guardie di P.S. intervennero i bersaglieri di stanza a Portoferraio e i marinai della corazzata Andrea Doria ancorata nel golfo. Dopo qualche avvisaglia tra forza pubblica e dimostranti, volarono i primi pugni e alcuni leggii della banda furono spezzati e gettati in mare; ad un tratto echeggiarono numerosi colpi di moschetto e di pistola che produssero un fuggi fuggi generale”. Nello stesso anno si arrivò anche all'occupazione degli altiforni per un mese, tra il settembre e l'ottobre.
La città in quel momento era sotto commissariamento prefettizio, rappresentato da Luigi Medici. Questi, per sminare una situazione esplosiva, aveva decretato un ampio programma di lavori pubblici, per dare impiego ai molti e inferociti operai licenziati dallo stabilimento. Tra le opere c'era l'interramento del fossato del Ponticello. Giocando sul cognome del commissario, nacque in città la battuta “un Medici ha distrutto quello che un Medici ha costruito”.
Ma i lavori non erano facili da fare. Innanzitutto occorrevano tonnellate di pietrame per il riempimento, e non era semplice trovarli. Teniamo presente che il fossato era lungo ben 490 metri, largo 22 e profondo 2. Anche la manodopera scarseggiava, in quanto nei mesi successivi molti operai furono reintegrati negli altiforni. Qualche problema venne anche dalle difficoltà di trovare fondi, con conseguenti ritardi delle paghe.
Fino all'ottobre 1921 i lavori andarono a rilento, quando finalmente fu organizzato un numero sufficiente di operai per portare a compimento l'opera. Che comunque non fu immediata. Infatti solo nel luglio 1923 fu possibile inaugurare il parterre Mario Foresi, nell'area dell'attuale parco delle Ghiaie.
L'atto finale fu nel 1925, quando fu demolito l'ultimo simbolo del Ponticello: la porta che per decenni aveva marcato il confine della città di Cosimo. Il pittoresco accesso, oggi vivo solo in vecchie foto, era ornato da fregi architettonici e sormontato dal coronato stemma dei Medici.
Non si salvarono dal piccone demolitore le tre batterie che guardavano il fossato. La Pentola, che si trovava a metà fossato, fu totalmente spazzata via. Di forma pentagonale, aveva due facce che ne chiudevano la testata e due fianchi alla scarpa del fosso. Copriva una superficie di 500 metri quadrati, i parapetti erano in terra e vi si accedeva dalla piazza d'armi sotto il glacis del fronte di terra.
Per quanto molto manomessa, la ridotta del Ponticello non è stata del tutto distrutta dallo stravolgimento urbanistico della zona. Quello che oggi possiamo vedere delle forme originarie è il lato sinistro. Infatti il lato destro fu demolito nel 1925, insieme alla già citata porta del Ponticello. Anche l'area circostante è radicalmente cambiata: in origine il fianco sinistro dava direttamente sul mare, mentre adesso ai suoi piedi si stende la banchina dell'Alto fondale. Il suo tracciato era irregolare, a due fronti: quello di sinistra, che batteva la rada, e quello di destra, che vigilava sull'imbocco del fosso e l'ingresso in città. I terrapieni in muratura erano alti otto metri. Occupava un'area di 610 metri quadrati. All'interno si trovavano due magazzini, di cui uno per le munizioni, e una capiente casamatta per il corpo di guardia, nonché due gallerie di scarpa laterali alla porta. Da un disegno notiamo che esisteva anche una garitta di guardia esterna e che il ponte levatoio era protetto da un cancello.
La fine più curiosa però la fece l'opera delle Fornaci, poco sopra il bastione di Santa Fine. Una foto degli inizi degli anni '20 ce la mostra ancora intatta, mentre risulta assente da un'altra di pochi anni dopo, assurdamente demolita addirittura per costruirci un campo da tennis, voluto chissà perché dal podestà Epaminonda Pasella. Ampia 3400 metri quadrati, batteva il fossato, con parapetti in terra, e costituita da due facce convergenti. Prendeva il nome dalla presenza di vicine fornaci di calce.
Andrea Galassi
Nelle foto un particolare di un quadro di Telemaco Signorini e scatto d'epoca