Jole era cotonose del Cotone, nata in una casa in faccia alle onde e alla tramontana, a due passi dagli scogli gialli che sarebbero rimasti nei suoi ricordi di bimba esiliata a Roma e nei suoi dolci rimpianti di novantenne.
Jole, Jole Serena, la Velena, vedova quarantenne con 4 figlioli di Galliano Mazzantini che anche lei chiamò sempre Veleno e che le avvelenò il loro breve matrimonio con una gelosia insensata e con anni grami di sanatorio e miseria, era una servetta, una sguattera, poi serva e poi ancora, cambiato il linguaggio e addolcita la differenza di classe, una donna di servizio, una di quelle che pulisce le case e le scale altrui e cucina i manicaretti che le orgogliose signore portano in tavola scordandosi di dire chi è la cuoca in cucina, a volte scordandosi anche che ci sia e chi sia.
Jole era una piccola donna d’acciaio piegata dall’artrosi di mani e ginocchia doloranti per i panni altrui lavati in negli uviali glaciali di San Giovanni e del Toro, così tanti da stenderci un filo fino alla luna e ritorno. Era una mula paziente e instancabile, una formichina che ha racimolato spiccioli di fatica per crescere l’unica povera ricchezza della sua vita, i 4 bimbi che ancora dal suo ultimo letto guardava nella foto ingrandita del Santini attaccata al muro. 4 bimbi pieni di speranza e innocenza, nudi con il costume da bagno i più grandi e vestito come un principino il più piccolo, seduti sulla muretta che divide il Moletto dalla spiaggia della Marine e con alle spalle il Cotone, in una giornata di sole, in un tempo sospeso che per lei era tutta la serenità che poteva avere, che voleva avere.
Jole era una serva, quelle che si portano il mondo sulle spalle, le formichine della regina e dei guerrieri, quelle che rassettano il mondo, che lo rammendano, lo puliscono, quelle sulle quali lo sguardo passa. Quelle senza le quali il mondo sprofonderebbe nella sporcizia e le tavole non avrebbero cibo saporito e i bimbi un bacio.
Jole era una brava serva, che si accontentava di poco e che quel poco che aveva era pronta a spartirlo con chi amava, a levarsi il pane di bocca per chi amava. Jole era malfidata e permalosa, ma sempre pronta a dividere il poco con chi aveva meno di lei – e a volte è stato difficile avere meno di lei - ad accogliere una gatta randagia, a riaccogliere i suoi figli randagi.
Jole era una cucitrice bravissima, la più brava di tutte al punto smock, e ha reso più belli e preziosi i vestiti delle bimbe marinesi, pensando alla bimba che aveva sempre desiderato e che non aveva mai avuto perché Veleno ad ogni ritorno metteva su solo maschi.
Jole, che aveva imparato a leggere e scrivere in un collegio di suore romane, leggeva fotoromanzi quando faceva la sguattera a Roma e a Piombino e poi da giovane sposa, ma imparò a leggere i romanzi veri, i libri che io e Mario lasciavamo sparsi per la nostra casa di due stanze, e ne lesse molti e di gusto, sprofondando in mondi non suoi ma dove da un angolo, da una pagina fugace, o come protagoniste ed eroine spuntavano serve come lei, vittime riscattate o perse. E le stesse donne e gli stessi uomini terribili, con altri nomi e cognomi, con i quali aveva avuto a che fare. A Jole, fino a che la vista l’ha sorretta e il cervello riusciva a decifrare qualche parola, piaceva legge, anche se ormai solo di nuovo i rotocalchi scandalistici della sua gioventù, diventati a colori, dove le formiche regine d si mostrano in “bighini” alle formichine operaie.
Jole se ne è andata a quasi 92 anni, non è arrivata alla notte della Befana in cui nacque nel 1930, figlia bastarda di padre non ignoto, ma ha scelto di lasciarci nel giorno in cui nacque il suo figliolo più piccolo.
Prima, da brava serva della sua vita, da suo letto, ha chiuso tutte le stanze del suo dolore, ha rassettato con cura, arieggiandole, le stanze liete della sua giovinezza, ripercorso ad altra voce, nel sogno e nella veglia, le strade e gli scogli cotonesi, rivisto la gente scomparsa dei suoi giorni, riso con sua sorella Luigina, come fanno le bimbe piccole, con quella risatina salivosa che sembra i un trillo di raganella scherzoso, riso di buffezze e uomini e donne del passato. Si è tuffata in mare, ritornata bimba, dagli scogli rugosi della sua infanzia, ha riaccarezzato amorevole ad uno ad uno quei bimbi appesi nella foto sul muro. Ha chiesto aiuto poche volte, a gran voce, a me e a Veleno per salvarla da pericoli inesistenti. Si è messa in pace con la sua vita tribolata, Ci ha sorriso grata, con occhi che guardavano già altrove.
E poi si è riposata. Si è finalmente riposata come per una lunga vacanza, come quelle che aveva fatto con me e Marianne, lei che nella sua vita non era mai stata più a sud di Roma e più a nord di Bologna, in Svizzera e nella Venezia del suo desiderio, incantata come una bimba nel mondo delle fiabe. Ha ritrovato finalmente il senso di quel cognome che per tutta la vita le era pesato come un marchio da bastarda: Serena.
Poi se ne è andata. Ha spento la luce e chiuso le porte. Come fanno le serve perbene, le sguattere brave. Senza disturbare. Dopo gli ultimi baci e carezze.
Mi ricordo che quando andavamo a scuola c’era un libro di religione che si chiamava la scala di Giacobbe, una scala che porta in paradiso. E, se il paradiso esiste, Dio e gli angeli e San Pietro sono già lì che aspettano Jole e sarà facile fare i conti di una vita senza colpa e senza peccati. Ma dovranno aspettarla, perché sicuramente, risalendo la scala di Giacobbe, Jole si è fermata a pulirla e quando arriverà in cima alle nuvole la scala per il paradiso sarà splendente come non lo è mai stata da millenni.
Umberto, il figlio della Serva