L’estate non era come ora, arrivava in un giorno preciso: il 24 giugno con i fuochi di San Giovanni (in mare con tutti i panni), e finiva il primo settembre (chi fa il bagno di settembre nella bara si distende). Prima c’erano le ciliegie, l’albicocche e le susine da rubare arrampicandosi su alberi scivolosi e muri centenari armati di schegge di vetro, dopo c’erano i grappoli d’uva accucciati tra le pampane, i chicchi già dolci da contendere alle vespe. C’erano lucertole, ramarri e serpenti, luciole e c’erano le lucciole danzanti nelle notti di maggio, c’erano pesci e granchi, lenze da armare, barattoli di vernice ripuliti da buttare in mare agli scogli davanti a piazza di sotto per prendere i polpi. C’erano le rondini di mare, che poi abbiamo imparato a chiamare balestrucci, che a settembre si schieravano pensierose sui fili della luce, in attesa di un segnale d’autunno, e che poi partivano, tutte insieme. E noi credevamo, perché ce lo avevano raccontato, che volassero verso un punto in mezzo al mare e che poi si tuffassero tutte insieme nello sprofondo, per passare l’inverno sott’acqua e che poi, da quel punto che nessuno aveva mai visto, le rondini rivolassero fuori dall’acqua salata, dove forse mangiavano alghe e pulci di mare, per ritornare sull’isola ad annunciare la primavera e l’estate, a dividersi il cielo con un esercito scuro e crepitante di rondoni e con le rondini dalla gola rossa, le rondini quasi blu, che vedevamo nelle nostre avventure di ladri in campagna.
Prima e dopo l’estate del dogma, c’erano soprattutto bagni segreti, lontani dai divieti e dagli sguardi delle nostre mamme, che scoprivano i tuffi vietati leccandoci una spalla, sentendo il sale che non dovevamo avere, vedendo una striscia bianca di salmastro in un posto che ci eravamo scordati di lavare alla fonte del Cotone.
Poi, dal primo tuffo al moletto, l’estate si apriva, calda e spavalda, nuda con la pelle scura.
Erano grida, cazzottate, avventure, ciuttate insalatine. Un mondo di bimbi liberi, selvatici e feroci, sorvegliati da un paese che li teneva stretti in una rete invisibile, come pesciolini, gorani salterini dentro a un sacco tessuto di voci, bisbigli, chiacchiere di donne, schiaffoni nel topezzo e calci in culo di uomini.
Le nostre mamme non sapevano nulla e sapevano tutto di noi, anche quando si riposavano all’ombra, sedute a chiacchiera nella calura delle vie, raccontandosi la vita faticosa prima di ricominciarla. E quel che non sapevano lo immaginavano dalle sbucciature sui ginocchi, dalle nocche spellate, dai tagli sui cigli e sulle labbra già cicatrizzati dal salmastro o che avevano bisogno di qualche punto nello studio ombroso, al Comune vecchio, del burbero dottor Bonanno che ogni volta chiedeva loro di addomesticarci un po’ meglio.
L’estate era un tempo confuso, sudato, eccitato, una lenza da sbrogliare.
Troppe cose da fare e poche da farne, i tuffi profondi con la fiocina a cercare le dragane nascoste nella sabbia, le spedizioni a rubare le aragoste che Chiaravalle teneva nei cassoni di legno nel porto, la noia interminabile delle ore del pisolino digestivo pomeridiano che non facevamo. Nessun appuntamento e ritrovarsi sempre insieme, sempre gli stessi, con qualche forestiero pari nostro che si aggregava, riconoscendosi senza chiedere in quella banda di teppisti. Imparavamo cose, prendevamo scapaccioni, granatate, ciabattate praticamente tutti i giorni. Era il prezzo da pagare. Era normale.
Poi allungarono il moletto. Lo fecero con una gettata di cemento che accecava i pesci che prendevamo senza pietà con reti e retini. Il nuovo pezzo di molo in cemento, praticamente gettato sulla sabbia, si inclinò alla prima mareggiata, si inclinò verso il Cotone. Uno scivolo enorme che diventò ancora più scivoloso quando le alghe - l’erbino verde - crebbero come un arricciato prato inglese dove arrivavano il mare e la marea. Una roba mai vista, che ci fece dimenticare i tuffi dalle prime e seconde scalette e ci trasformò in surfisti da erbino di mare: prendevamo la rincorsa sulle lastre asciutte di granito del moletto dritto e, arrivati al prato marino, pattinavamo e sciavamo fino ad entrare, di sbieco e velocissimi in mare. Un gioco fatto di spinte e scontri, spallate, dal quale le bimbe stavano lontane… ma le femmine che ci conoscevano stavano sempre lontane da noi.
Pattinavi sulle alghe, veloce e entravi in mare piegato, tagliando l’acqua con le gambe o con un tuffo dell’ultimo momento, improvviso. Qualcuno si fece male, qualcuno, prendendo male le misure della corsa e dello scivolo ha battuto la testa sul cemento inclinato e per qualche minuto lo abbiamo creduto morto… Ma a nessuno venne in mente di chiudere quel pezzo di molo verde pendente verso il Cotone a quelle sfide di bimbi. Ora sembra incredibile ma è così: ci lasciarono fare, non ci tolsero quel divertimento rischioso, non misero una proibizione, una transenna, un cartello che sapevano che avremmo ignorato con gusto, per sfida e impunità.
Poi, prima dell’estate dopo, sistemarono il moletto, lo raddrizzarono con una nuova colata di cemento, rafforzarono in qualche modo le cedevoli fondamenta sulla sabbia. Ed è rimasto dritto per sempre, com’è ora.
E l’anno dopo eravamo già così grandi da andare al moletto per stuzzicare le ragazze, che ormai si facevano stuzzicare volentieri. E dimenticammo le dragane e le fiocine. E piano piano abbandonammo quel moletto per bimbi. Ci spostammo alla Finiccia e alla Finiccetta, dove facevano il bagno i grandi e dove i sogni dell’estate erano altri, diversi dal surf sull’erbino verde di mare.
Umberto Mazzantini