Non sono passati nemmeno 6 mesi dalla partenza di Pietro che la mi’ zia Luigina lo ha raggiunto. Un lungo viaggio per lei che la prima volta - e una delle rarissime – che uscì dall’Elba lo fece per andare al giuramento da alpino del quarto dei suoi 6 figli (tutti maschi) che potrebbero essere stati 12 (tutti maschi).
Luigina Serena, figlia di padre ignoto di un bel marinaio noto e con il suo stesso cognome, saltò la scuola e non imparò a leggere e scrivere perché venne destinata subito a badare al su’ fratello Macallè e alle su’ sorelle Lorenza e Fernanda, figlio e figlie di Ferruccio: alla mi’ nonna Natalina piacevano gli uomini giovani e belli e non se ne fece mancare, non badando troppo né al colore di capelli e di occhi, ma con un’evidente debolezza per quelli di pelo chiaro e occhi color del cielo.
Ma Luigina era molto legata alla sorella maggiore, più piccola e scura, la mi’ mamma Jole, che ancora quando dividevano l’estrema vecchiaia, quando la mente di entrambe svaniva in una nebbia densa dove i ricordi ormai si cercano a tentoni e si accarezzano come piccoli animali sfuggenti, le leggeva con un atteggiamento da maestrina saccente, al tavolino della nostra cucina, notizie e pettegolezzi di giornali che credeva freschi di stampa e che erano già passato, a volte passato remoto.
Ma per Luigina e Jole il tempo si era fermato – quasi allo stesso tempo e su orologi diversi – e poi era ritornato indietro, al breve periodo in cui avevano vissuto insieme al Cotone, nelle due stanze con il soffitto altissimo, senza gabinetto e acqua corrente, arrampicate su scale ripidissime e affacciate sul mare, a picco su una spiaggia scomparsa e sulle albe e i tramonti.
Ed è quel luogo del cuore ormai brulicante di fantasmi che le due sorelle svampite dalla vecchiaia volevano riconquistare con una specie di esproprio proletario, non riconoscendone la proprietà ai legittimi padroni e rivendicandone l’eredità perché il loro nonno Lorenzo Serena, Locciante, aveva detto alla mi’ mamma che un giorno quella casa, che aveva comprato con una stretta di mano al posto di un contratto firmato, sarebbe stata sua e della su’ sorella.
Per mesi, fino a che le gambe della mi’ mamma e il cervello di Luigina hanno retto abbastanza, la scena era questa: Luigina partiva da casa sua, veniva a prendere la mi’ mamma a Risecco, scendevano svelte quanto lo permetteva l’artrite di Jole via San Francesco e il Vicinato, salutando tutti e tutte e salutate da tutti e tutte, e si dirigevano con una qualche chiave in mano a reclamare la restituzione della loro casa, rivendicandola a gran voce e battendo a quel portone moderno ed abusivo dietro il quale era asserragliata la signora, la proprietaria vera, che si chiedeva chi fossero quelle due vecchie donne che parlavano di un altro secolo, di uomini nati nell’800, di Valparaiso e del Cile dei bastimenti a vela, come se fosse oggi.
Piano piano dalle nostre case sparirono tutte le chiavi perché, dopo averle usate per tentare di aprire la porta dei loro sogni di bimbe, Jole e Luigina se le dimenticavano, le perdevano, le disperdevano. Alla fine, non avendo più accesso alle chiavi delle rispettive case, le due sorelle rivendicatrici provarono ad aprire quella serratura inviolabile con un Crocifisso che chissà dove avevano trovato, visto che nessuna delle due è stata mai una grande frequentatrice di Chiese e pia donna da rosario, avendo da badare a rosari di figli maschi.
Me le ricordo l’ultima volta che le trovai insieme in Piazza di sotto, fra la grande palma, il mare e la spiaggia, in un inizio ancora fresco d’estate, mentre discutevano probabilmente di come dare un nuovo assalto alla loro casa del Cotone. Luigina mi vide e disse alla mi’ mamma: “ma quello unnè il tu’ figliolo?” La mì mamma: “Sei sicura? Un mi sembra che sia il mi’ figliolo”. Io mi avvicinai per farmi riconoscere meglio e Jole disse a Luigina: “Te l’avevo detto che era il mi’ figliolo”.
Chiesi loro – sapendo già cosa mi avrebbero risposto – dove stavano andando e dissi che era meglio se la smettevano di anda’ a rompere le scatole a una signora che la loro casa la aveva comprata da altri 30 anni prima. Mi guardarono un po’ stranite, come si guarda un imbecille che non sa niente di come funziona il mondo. Poi le salutai e, mentre mi allontanavo sentii Luigina che chiedeva: “Ma chi era questo rompicoglioni?” E Jole: “Boh, e chi lo conosce!” (la mi’ mamma viveva con me…)
Ecco, mi piace ricordarle così, insieme: due donne semplici, forti e fragili, che hanno attraversato una vita difficile. Due vecchie monelle ritornate le bimbe cotonesi che si persero e si ritrovarono, allontanate da una guerra feroce e dalla miseria. Donne fertili e testarde, che hanno seminato nel mondo vita e figli, con un futuro che è diventato passato, nostalgia, pochi rimpianti, ricordi confusi.
Due vecchie bimbe che si rincontravano ogni giorno come se fosse il primo, in interminabili riaccompagnamenti a casa l’una dell’altra, fino a che non calava la sera e qualcuna a casa si fermava davvero e l’altra a volte non sapeva più quale era la strada di casa. Che poi è la nostra strada di casa, dove tutti alla fine ci ritroveremo da qualche parte, risalendo le ripide scale di Natalina e Feruccio, per affacciarsi alla finestra sul mare e sul Cotone, sull’alba e sul tramonto. Perché Luigina e Jole avranno ritrovato davvero quella chiave miracolosa che apre la porta del passato. Forse ce l’aveva nonno Locciante, forse zio Pietro, o forse San Pietro.
Umberto Mazzantini
Foto di catarullo marinese