Come scrivi te, Sergio, con Elvio Diversi nel Partito Comunista Italiano siamo quasi sempre stati dall’altra parte, ma sono stati anni di divertente passione, quando sia noi che lui pensavamo (e io lo penso ancora) che cambiare il mondo fosse possibile. Ma sotto quella rossa bandiera il mondo che avevamo in testa noi e lui era diverso, lo volevamo cambiare in modo diverso, anche se al centro c’era un nucleo comune fatto di storie operaie e proletarie e di riscossa sociale. Anche se Elvio pensava che la sua storia di miniera e ferro fosse più nobile della nostra di zappa e pesci e che a Rio Marina ci fosse l’aristocrazia operaia, l’avanguardia del sol dell’avvenire che avremmo visto un giorno, anche con le miniere chiuse.
Una volta mi capitò, non mi ricordo perché, di andarlo a trovare nel suo ufficio di Sindaco in Comune dove c’era, come se fosse quello del Presidente della Repubblica, un busto di Lenin che io guardai abbastanza stranito mentre il “Ducetto” se la rideva sotto i baffi. con quella sua espressione serafica da rana furba che assumeva quando aveva capito di aver stupito e già catturato la preda che aveva di fronte.
E che quando finivano le riunioni ufficiali, poi nelle discussioni tra noi lo chiamavamo tutti “il Ducetto” (così come lo chiamavano tutti a Rio Marina e all’Elba), il Diversi lo sapeva benissimo. Credo che sotto sotto ne fosse compiaciuto perché quel soprannome blasfemo gli confermava di essere entrato, nel bene e nel male, nella leggenda di un Paese che non riconosce capacità, intelligenza, potere e carattere se non li ribattezza con un soprannome definitivo. Che ne pensasse il busto accigliato di Vladimir Il'ič Ul'janov Lenin di quel soprannome però non l’ho mai saputo.
Elvio era un uomo del suo popolo, fiero di una cultura operaia spigolosa e raffinata allo stesso tempo e che, come i politici del popolo, parlava per parabole. Arrivava al grande dal piccolo e utilizzava il grande per governare il piccolo, con decisione e attenzione incrollabile. Aveva inventato una specie di socialdemocrazia autoritaria elettiva impregnata di riesitudine, districandosi tra quel che avrebbe pensato la Scarpaia e le leggi nazionali e regionali che diventavano sempre più complicate da attuare. E a Rio Marina era amato o destestato, in mezzo non c’era niente. Era un uomo dell’epoca. Di quegli uomini che dopo che se ne vanno vengono rimpianti anche da chi li detestava.
Credo che l’unico posto dove per lui c’era spazio per una discussione davvero libera e paritaria fosse il Partito che per la sua generazione e la nostra è stato scuola e palestra di democrazia, confronto e scontro. Ma anche di sintesi. E il Ducetto la sintesi la sapeva fare benissimo, con una battuta fulminante, a volte spiccia e brutale.
Non si tirava mai indietro in una discussione. E noi non ci tiravamo mai indietro. Rappresentavamo due anime di un grande Partito che sembrava granitico ma che stava insieme per convinzione pragmatica più che ideologica e per contrapposizione all’avversario. Un corpaccione politico fatto di tante cose, di fede, convinzioni, nuove istanze, modernità, sogni e desideri di uomini e donne. Dove le storie minime di piccoli Comuni si mischiavano con la storia grande e terribile di un mondo diviso in due. E il Diversi dentro il PCI ci stava dentro come fosse in miniera, scavando gallerie con in testa il casco e la luce di una fede ideologica che si andava sempre più affievolendo mentre il mito dell’Unione Sovietica sfioriva nel socialismo reale mummificato di Breznev.
C’erano cose che Elvio non voleva sentirsi dire e che noi con sfrontatezza dicevamo, un atteggiamento che una volta Athos Caprilli sintetizzò efficacemente così in una infuocata riunione a Portoferraio sull’invasione sovietica dell’Afghanistan: «Affaghistan, Afrikanistan, Asfaghastan… o come cazzo si chiama. Hanno fatto bene i russi a invaderlo co sto’ nome!». Una parabola alla Diversi che sicuramente gli piacque.
Gli scontri con lui su urbanistica, ambiente e ideologici furono epici e aumentarono quando fondammo Legambiente e lui e gli sviluppisti cominciarono a pensare che fossimo la quinta colonna dei Verdi (e ci chiamavano sprezzantemente così) all’interno del Partito. Elvio aveva una visione real-socialista anche dell’urbanistica della quale sono rimasti i segni sul territorio. Segni che noi criticavamo e lui rivendicava.
Ma in tutto questo (che è stato molto più di questo e molto più complicato di questo) riconoscevamo tutti nel Diversi una debordante umanità e un’intelligenza politica acuta, un legame viscerale con il suo territorio e la sua gente, una capacità comunicativa efficacissima, da tribuno sociale, e un coraggio istituzionale a volte temerario.
Non so che opinione avesse di me, anche se quando intervenivo e magari lo facevo incazzare, mi guardava come se fossi un animale esotico e interessante finito per caso in un posto non suo (una specie aliena invasiva, si direbbe oggi), ma una volta mi invitò a una delle sue ribotte post-riunione nella sua casa di campagna per una “merenda” dove mangiammo l’impossibile e bevemmo ancora di più. Ne uscii cosi briaco che ora, ripensandoci, non mi ricordo assolutamente cosa sia successo prima, dopo e durante.
Non so cosa Elvio pensasse di me, ma mi ricordo con piacere quel che disse ai giornali quando perdemmo un’elezione comunale a Marciana Marina: «Il Sindaco che ha vinto non lo conosco, ma conosco bene Mazzantini e De Fusco e se fossi in lui mi preoccuperei».
Dopo ci siamo sentiti qualche rara volta, quando il Diversi mi telefonava per segnalarmi qualcosa che succedeva a Rio Marina e a Cavo e per sapere se Legambiente poteva intervenire. Era rimasto però il divertito e curioso rispetto che credo abbiamo avuto l’uno per l’altro, senza mai nasconderci le differenze.
E stato un privilegio conoscerlo ed essere stati compagni.
Umberto Mazzantini