Mille lune fa, quando ero giovane, gli uomini mi legarono con una corda a un molo di granito e ruggine, accanto a una spiaggia dove il mare arrotondava paziente ciottoli e ghiaie, dove si tuffavano chiassosi cuccioli d’uomo che, a volte, mi salivano sulla groppa per farsi portare sul fondo poco profondo, poco lontano, fino a dove arrivava la cima che mi legava la zampa.
I cuccioli d’uomo poi risalivano senza fiato, tenendosi lontano dal mio becco acuminato e pericoloso, come fanno le piccole foche.
Poco sapevamo del mondo di sopra, se non che era dove eravamo nate, ma io sapevo che quella corda era la mia fine che aspettavo con terrore rassegnato, come abbiamo fatto per innumerevoli secoli, da quando il mondo d’acqua era popolato da grandi rettili feroci e poi di squali e poi delle reti e degli ami degli uomini.
La nostra è una paura paziente, figlia di un cuore corazzato, di viaggi senza fine, di spiagge scomparse, non dimenticate, ritrovate, esplorate, di un mondo cambiato così tante volte, così lentamente che gli animali giovani come gli uomini non possono nemmeno immaginare. Ora nuotiamo in un mondo d’acqua salata e risaliamo spiagge che gli uomini hanno cambiato troppo velocemente.
Eppure, mille lune fa, mentre aspettavo paziente il destino, prigioniera di un molo su un’isola, in una notte illune e di mare caldo, fu un piccolo cucciolo di uomo, quello che aveva giocato con me il pomeriggio sotto l’acqua come fossi un cavalluccio marino, che si tuffò silenzioso con un coltello in mano e tagliò la cima che mi legava la pinna, mi lasciò andare e mi disse in un sussurro di bolle: “Sei libera", con un’audace carezza sulla testa, accanto al becco che temeva.
In questi lunghi anni, mentre ormai nuoto verso la fine di una lunga vita, ho incontrato molti uomini, molte reti e molti ami e a poi il mare si è riempito di canti, pianti e ninnenanne, e i fantasmi di troppi bambini ci chiamano dal fondo del mare per giocare con noi, tra il fango, le alghe, i coralli e le meduse e i pesci luminosi e terribili. Cantano insieme alle balene, cantano il Mediterraneo trasformato in cimitero di cuccioli di uomo. Cantano la nostalgia del sole e della luna che portiamo loro a pezzetti, piccole schegge di luce nel becco, sognano il mondo che non avranno.
Siamo le messaggere tra il mare e la terra e i bimbi annegati volano con noi, sulle nostre faticose pinne che laggiù nel profondo diventano ali, ma non possiamo farli tornare.
Noi che nuotiamo pazienti da centinaia millenni attraverso le stagioni, su questa palla blu che sussurra alle stelle, in un mare che cambia e ci uccide di veleni e rumori, noi e i nostri cuccioli sappiamo però dove si perdono i cuccioli d’uomo, conosciamo dove galleggiano i loro poveri giocattoli, quale è il mare in burrasca, la corrente e il vento che portano scarpette scompagnate sulle spiagge dove facciamo il nido, sempre più a nord, dove anche loro avrebbero voluto andare.
Lo sappiamo perché, come fossero la luna, il sole e le stelle che ci guidano, seguiamo i canti sottomarini dei bimbi perduti e andiamo a trovare i piccoli fantasmi nelle loro case di legno marcio e plastica velenosa, sprofondate nel fondo del mare. Pena per pena, paura per paura, consolazione per consolazione.
E ora, mentre guardo le mie ultime lune, mentre scavo sulla spiaggia il nido per la mia ultima covata, mentre piango grata lacrime e sabbia di vita, illuminata dalla luna e da lampi lontani, vorrei tanto avere – e saperlo usare – quel magico coltello di bimbo che in una notte di luna mi liberò dalla mia prigione di granito e ruggine, vorrei averlo per tornare, in un ultimo viaggio, dove c’è la fredda prigione sottomarina dei piccoli, per liberarli uno a uno dai lacci della morte, per farli ritornare alla loro terra, ai loro giochi, a un abbraccio e a meravigliarsi sotto la luna per una piccola scarpa scompagnata o per un cucciolo di tartaruga marina che corre sulla sabbia, verso il mare, il destino, il futuro.
Umberto Mazzantini