Pasque non ne ricordo, per noi non c’erano uova e sorprese, e ignoravamo – senza dar peso all’inferno e al purgatorio – il precetto “Confessarsi almeno una volta all'anno: comunicarsi almeno alla Pasqua”.
Ma la Pasqua odorava di fritto, odorava di costine di capretto, cervelle e carciofi fritti che Jole a volte cucinava prima di andarle a cucinare nelle case di qualche signore.
La Pasqua era per noi un pasto speciale di poveri come lo fu la Pesach degli ebrei in terra di Egitto.
Era un pezzo di corollo cotto nel Forno di Iride in un rito collettivo di donne in fila.
Erano le strane processioni alle quali non partecipavamo ma dove sapevamo che i comunisti portavano la Madonna e i democristiani il cristo morto pronto a risorgere. Era la chiesa vestita di viola, il grano bianco del buio, le bàtticie di legno fatte risuonare da Gogo per le vie del Paese ad annunciare le messe di quaresima.
Erano le sportelle rubate la domenica delle Palme e mangiate a pezzi voraci o zucccherino per zuccherino.
Erano la televisione in bianco e nero, parata a lutto e musica sacra, come se davvero fosse morto il figlio dell’Uomo, e i macelli di Umberto, Beppino e Spellacapretti chiusi il venerdì Santo .
Erano le campane finalmente slegate e le rondini e i rondoni scaturiti dal mare che tornavano a popolare il cielo di gridi e di voli.
Era una melensa poesia della scuola. Una preghiera non recitata.
Ma la Pasqua, un giorno particolare di pasqua, non me la ricordo. Mi ricordo i ciliegi a volte già in fiore, o i mandorli fioriti e già con le foglie verdi di velluto che annunciavano la morte dell’inverno. Mi ricordo l’odore della primavera. Mi ricordo il canto dei galli. Il risveglio del primo serpente. Lo sguardo accigliato di un ramarro.
Mi ricordo però che la Pasqua odorava di fritto e pastella. Mi ricordo un dito di vino dolce in un bicchiere scompagnato e la chiesa piena di donne e le bettole e i bar pieni di uomini in festa.
Umberto Mazzantini