In questi tanti, lunghi anni di professione ci è capitato di ricevere adirate telefonate da coloro che si sentivano offesi e lesi perché avevano letto sulle pagine (elettroniche o cartacee) dei giornali il proprio nome (o quello di un congiunto) messo in correlazione ad una (presunta) violazione compiuta, di cui è trapelata - o dichiaratamente data - notizia da parte degli organi inquirenti.
I vecchi cronisti, normalmente "ci hanno fatto il callo" a queste adirate lagnanze, così come alle minacce di querele per presunte diffamazioni, talvolta giunte a concretizzarsi più rognosamente in giudizi penali e civili. Personalmente ciò ci è accaduto 22 (ventidue) volte e se in nessun caso abbiamo ricevuto alcuna condanna o sanzione, qualcosa vorrà pur dire (oltre al fatto che siamo assistiti da ottimi legali).
Ma torniamo alle semplici "intemperanze telefoniche", che non potevano certo mancare in relazione ad un caso eclatante come quello dei presunti "abusi Capoliveresi", che, tanto per cambiare, hanno fatto assurgere l'Isoletta Verde e Blu, a caso nazionale, non proprio in gloria.
E la domenica ci è stata allietata da una di queste comunicazioni da parte di una incazzatissima madama.
Niente di nuovo: a partire dalla epocale argomentazione "Perché invece di scrivete i nomi dei rispettabili cittadini non mettete quelli ristoratori (sic) che vendono pesce marcio o degli spacciatori..." con l'ovvia risposta "Perché non ce li rivelano, altrimenti lo faremmo".
Ma gli improperi della signora hanno stavolta un tocco di originalità, terminando con una sorta di maledizione finale: "Vi auguro di soffrire come voi ci fate soffrire"!
Ci è venuto da pensare che eravamo ad un passo dal rito voodoo, col bambolotto del vile giornalista infilzato dagli spilloni.
E poi arrivava il lunedì con un nuovo diverso sequestro, apparentemente "fuori sacco" rispetto alla partita di quelli resi noti in precedenza, ed effettuato da diversi tutori dell'ordine ma, almeno in parte, pare riferito agli stessi (presunti) attori.
Abbiamo ripensato allora alla intemperante telefonatrice di qualche ora prima, ponendoci una domanda: ma come è possibile avere una tale percezione della scala di gravità dei comportamenti? Come si fa a valutare più grave e vergognoso lo spaccio di qualche grammo di fumo o il seminare cannabis per uso personale, rispetto a l'impestare di talvolta imperituto illegale cemento un territorio? O ancora, visto che non ci risulta neanche un caso di serio "avvelenamento da pesce marcio" di cui far carico ai ristoratori o simili (al più ci torna in mente qualche non esiziale cacarella di gruppo), come è possibile ritenere la (certo illegale e sanzionabile) detenzione di alimenti oltre la scadenza o non etichettati, più pericolosa di una vera e propria filosofia del "a casa mia faccio quello che cazzo voglio", senza contare che casa "tua" insiste in un paeseggio, in un ambiente che è comune, che è di tutti?
Ma sapete la cosa che (a posteriori) ci ha colpito di questa vicenda? Gli scarsi commenti, e quelli improntati a un sarcastico fatalistico: "E' nova!" o al fatto che a Capoliveri ci sarebbe da aspettarsi questo e altro... Come se ci trovassimo di fronte a fenomeni naturali e ineluttabili.
Ma, cari elbanesi, il problema della "cultura della legalità urbanistica" non è mica un fatto che interessi solo quel paese collinare, dove vivono - per fortuna - anche in persone per le quali le leggi della Repubblica Italiana continuano ad essere in vigore. L'elenco dei "troiai" sparsi per l'Elba, se non è infinito è almeno corposo.
E allora quando si parla di illegalità sarebbe da tenere in conto che le ferite che si infliggono al paesaggio, sono forse le più gravi, proprio perché si accoltellano il futuro, le risorse perfino economiche di quegli stessi giovani che vorremmo educare.
sergio