All’Elba, come devo avere già accennato da qualche parte, torno oramai soltanto per pochi giorni all’anno; ma in uno di quei pochi giorni, ci potreste mettere la mano sul fuoco, inforco lo zaino con l’asciugamano, il panino e una bottiglia d’acqua, le sigarette con le cartine, il libro e l’eterna Settimana Enigmistica, e me ne vo in Galenzana.
In Galenzana, non dico che ci sono nato; ma quasi. Da ragazzo, quando già si sentivan voci e proposte di farci la strada carrozzabile e il porto turistico (parlo degli anni ‘70 del secolo scorso), già minacciavo di incatenarmici e di fare lo sciopero della fame se qualcuno si fosse azzardato a toccarla ancorché di striscio; era l’epoca in cui, spinto da due gambe di cui non si vedeva la fine e da un par di piedi smisurati, da casa pigliavo su dal Formicaio, cioè dalla parte più ritta, e me la facevo quasi di corsa, alla bersagliera. Consideravo quasi un disonore passare dal paese, dalla “via Bellavista” che comincia alle Case Nove, che era più lunga ma anche molto meno ripida, e per il Crino.
Da qualsivoglia parte si passasse, però, ad un certo punto s’arrivava alla Chiesina; e se si voleva scendere in Galenzana, occorreva proseguire per il sentiero che proveniva dal paese. La Chiesina, di semplice stile gotico campese e dove resistevano un altarino, una crosta con la Sacra Famiglia e un mazzo di fiori pressoché fossilizzati, era piena di scritte e dediche, le più antiche delle quali erano ringraziamenti alla divinità, brevi ex voto o semplici cenni d’un passaggio in devoto raccoglimento. Le più recenti, invece, constavano perlopiù di giovanili dichiarazioni d’amore, stringati resoconti di fugaci amplessi ivi consumati e disegni stilizzati di organi genitali maschili. Non si sa nemmeno quando e chi l’abbia fatta costruire; da certi indizi si pensa però alla seconda metà del XIX secolo.
La Chiesina è, per Galenzana, come il famoso punto sul cammino di Compostela dove “todos los caminos se hacen uno”; e poi, giù e via andare, perché il cammino unificato, per un tratto, era diritto e quasi in piano. Poi riscendeva, curvando e restringendosi in corrispondenza di uno dei Salandri, e diventava molto irregolare, scanalato dalle piogge e invaso da piante di macchia, quasi tutte belle spinose. Meglio andarci in pantaloni lunghi, anche in piena estate; altrimenti si correva il rischio di arrivare con le gambe graffiate e insanguinate.
Sono arrivato a farmela, con un mio amico che poi ha preso il Premio Nobel, di notte senza lampadina tascabile, disperati perché lui aveva perso le chiavi e il portafoglio sulla spiaggia, il pomeriggio (e ritrovò tutto al buio, sulla sabbia). Due o tre volte, invece, me la sono fatta a nuoto buttandomi dal molo del Kontiki, coi miei piedacci n° 48 che facevano da pinne; un’altra volta persino in canoa.
Adieu la jeunesse. Ora sì, eccome, che mi tocca passare dalle Case Nove. E pian pianino, riposandomi ogni quattro passi, con un fiatone bolleroso tanto da sembrare un Lupetto del ‘59 e la lingua avvolticciolata al collo. Purtroppo memore de’ miei verdi anni, la piglio sempre alla garibaldina; ma, ben presto, Giuseppe Garibaldi mi abbandona e se ne torna sconsolato in Caprera. Tempus fugit, ruit hora; e in Galenzana, sì, d’accordo, ci vado, ma mi fa pena al cuore. Procedo con tutto il mio ansimare da catarro armato e le mie tossi di fumatore incallito ultrasessantenne, e mi ritrovo sbancamenti, carrarecce, cantieri, agriturismi, cartelli di proprietà privata e quant’altro; alla fine ce l’hanno fatta, se la son presa loro. Ma, nonostante il peso non indifferente da portare, mi verrebbe la voglia di metterci un mitra, nello zaino, invece del libro. Pensieri fugaci, va da sé.
Alla fine, ci arrivo, in Galenzana. Mi stendo all’ombra delle tamerici (ah no, scusate) su un asciugamano residuato della guerra di Libia, e mi metto a guardare, assorto nei miei pensieri (non so come mai, ma “assorto nei miei pensieri” ci sta sempre bene, come “era una notte buia e tempestosa”). Così lo scorso anno, esattamente mercoledì 19 giugno 2024; approfittando delle lunghissime giornate, ci ero andato soltanto a pomeriggio inoltrato dimodoché, alle otto e mezzo, ero ancora lì sdraiato come un angiolone e impegnato in uno spaventoso Bartezzaghi (junior) in mezzo a drammaturghi tedeschi del XIX secolo e costellazioni ignote persino a Margherita Hack, non trascurando i celeberrimi teologi valdesi, i torrenti svizzeri e le capitali del Bhutan. S’approssimava l’ora del rientro; e non sapevo ancora che, di lì a poco, sarei stato unico testimone oculare, e persino deuteragonista, di un avvenimento che, sì, avrebbe potuto cambiare radicalmente il destino dell’Umanità intera. E, credetemi, non sto esagerando affatto; la mia è una storia vera, come quella di Luciano di Samosata.
Mentre stavo già rimballando le mie cose e mi preparavo quindi a ripercorrere all’incontrario quel cammino che m’aveva visto fanciullo, pensavo con letizia che, magari, avrei potuto scender giù per la Salita degli Oleandri (“Quant’ vero che una salita vista dall’alto somiglia tanto a una discesa”, dai “Pensieri di Pippo”), risparmiandomi un po’ di strada ed innestando dentro di me anche gli smielati ricordi del mio primo e misconosciuto amore di quindicenne, una meravigliosa ragazzina che colà abitava ed alla quale mai e poi mai ebbi il coraggio di dichiararmi perché, ne ero certo, m’avrebbe mandato in triplo culo carpiato arrovesciato, facendomi fare un Axel degno dei migliori pattinatori sovietici.
Ad un tratto, il mio orecchio fu attirato da uno strano sibilo, che si fece rapidamente sempre più forte; l’inquietudine mi s’andava cangiando gradatamente in sacro terrore. Alzai lo sguardo verso il cielo che si stava scurendo (dovevano essere già passate le nove, e naturalmente mi ero dimenticato il telefono, modello Socialismo Reale, made in DDR 1953) e vidi una massa luminosa, dapprima vaga, poi sempre più nitida, che stava scendendo in frenata in direzione di Punta Bardella. Alla fine, la massa luminosa atterrò; “Per la barba di Bakunin, ci siamo!”, mi dissi, “Sono arrivati gli Extraterrestri”.
Ignorando quale perverso disegno della sorte m’aveva fatto essere lì in quel preciso momento, primo essere umano ad assistere allo sbarco degli alieni sul Pianeta Terra (incontro ravvicinato non mi ricordo di quale tipo), il terrore, pur permanendo, mi si frammischiò al più grande stupore quando vidi l’astronave nella sua interezza.
Ora, prima d’andare avanti, vanno dette un paio di cose. Prima di tutto, non so perché mai gli extraterrestri debbano sempre arrivare in Nordamerica, in qualche deserto dell’Arizona, negli sconfinati campi del Midwest o nella misteriosa Area 51. Persino i fratelli Strugatskij, sebbene russi, han fatto lasciare in Canada i resti del Picnic sul Ciglio della Strada. E invece, eccoli qua in Galenzana, proprio davanti all’umilissimo servo vostro. Insomma, come dire: pur terrorizzato e stupito, ero anche un po’ fiero che avessero scelto, tra tutti i possibili luoghi di questo pianeta, proprio l’Isola d’Elba per il loro arrivo sulla Terra. Seconda cosa, già mi stavo immaginando cose terribili, del tipo: “Ecco, è la nemesi, magari so’ parenti de’ cinghiali e so’ venuti da un mondo lontano a eradicare gli elbani!”
Ma tutti i pensieri ebbero fine quando, finalmente, potei vedere il mezzo astrale con cui erano discesi sulla Terra. Tutti quanti ci immaginiamo dischi che fischiano, palle rotolanti con le lucine stile Natale in Val Gardena, oppure mostruosi falansteri cosmici di gelido color nero metallizzato; e invece no. Quella che mi si era parata davanti era invece una piccola astronave molto poco “astro”, dato che aveva la forma proprio d’una nave non propriamente di ultima generazione, con lo scafo nero e che, sulla fiancata, recava la scritta “Maria Maddalena”. Ebbene sì: era la riproduzione esatta del Calimero! Va bene, con qualche lampadina variopinta in più, stile sagra der porpo lesso colle patate, coi sonìni pìro-pìro-pìro da UFO Attacco alla Tèra, con le turboeliche al neodimio-iridio-titanio e chissà quale altra siderea diavoleria, ma, dio sagrato, era il Calimero.
Immaginatevi un po’ voartri. Mettetevi ne li mi’ panni. Disgraziatamente, sono anche un ateo incancrenito, negatore d’ogni dio e d’ogni religione, canzonatore di madonnine e di profeti (a parte Johan Cruijff, il profeta del gol), e titanico schernitore di papi e Padri Pii; non potevo quindi trovare conforto nella Santa Fede in quel fatale momento, né pregare il Grande Manitù che non scendessero dal Calimero i classici omìni verdi con la proboscide, armi sconosciute e terrificanti alla mano. Come avrei potuto almeno comunicare con loro per implorarli di risparmiarmi…?
Neanche a farlo apposta. Dalla bizzarra astronave scesero infatti i più banali e triti omìni verdi con la proboscide e le antenne, avviandosi verso di me che stavo in pantaloncini da bagno lacerocontusi, con le spardegne e una maglietta bisunta con la faccia di Paperino incazzato. Erano circa una decina, alti sì e no un metro e venticinque, e, con mia grande gioia, disarmati (ma, magari, avevano nelle dita il fluido disintegratore e potevano polverizzarmi solo con un cenno). In quel momento di grande imbarazzo, perché si vedeva che nessuno sapeva proprio che dire o fare, uno di loro mi si avvicinò, mettendomisi di fianco e constatando che gli abitanti del Pianeta Terra sono parecchio più lunghi di loro. Sfruttando certe mie abilità linguistiche, provai a rivolgermi loro, in quel momento veramente cosmico: Parlez-vous français? Nessuna risposta. Pratar ni svenska? Silenzio. Puhutteko suomea? Talið þið íslensku? Μιλάτε ελληνικά? Do you speak Riese, il ganfino e la ganfognera…? quale fu la mia sorpresa quando uno di loro, che era alto un metro e trentasei e che doveva quindi essere il Capo, agitò la proboscide e mi disse in un linguaggio che mi risultava estremamente familiare:
- “Senti, terestre, cia’ percaso una vaporina…? Accidentammé, l’ho finite prima d’entrà’ ner sistema solare e ‘un fumo più da giorni…”
Così, mentre oramai s’era fatto buio e il mondo correva un rischio indicibile, io, oramai rassegnato ma colpito dalla tutto sommato gentile richiesta di quel povero alieno in crisi d’astinenza, presi le cartine, la borsa del tabacco e un filtro e cominciai a rollargli una sigaretta. Quello mi fermò:
“No, guarda, scusa, ir firtro no, a me un mi ci garba e le fumo senza”.
Alla fine, dopo un cenno d’approvazione del Capo, tutti gli altri mi chiesero la stessa cosa, chi col filtro e chi senza, e io giù a rollare leggendo loro la gratitudine negli occhi (che eran parecchi, visto che -m’ero dimenticato di dirlo- ne avevano sei ciascuno). Insomma, andò a finire che ci si mise tutti quanti a sedere, proprio lì davanti alla villa di Galenzana. Non c’era nessuno. Si vedevano, in lontananza, le luci di Marina di Campo, dove ignari esseri umani, paesani, turisti, famiglie e sindaci passeggiavano sul lungomare in quella sera di prima estate, guardando le bancarelle del mercatino e discutendo der più e der meno. Avessero saputo che cosa stava accadendo proprio lì, di là dal molo e dalla Torre!
Insomma, come dì’: si fece quasi amicizia. Timidamente, mi azzardai a chieder loro donde nel cosmo provenissero, e mi risposero che venivano dal remoto pianeta Sciambere, nella Galassia der Magochiò a du’ o tremila anni-luce dalla stella Andromerda. Insopportabilmente didascalico e pedante come sono a volte, m’azzardai a correggerli: “Andròmeda…!” Il capo mi fulminò con un paio dei suoi occhi, e mi disse:
“Bambolo, dé, o un lo saprò meglio di te come si chiama la stella...se ti dico Andromerda, è Andromerda!”.
Profondendomi in scuse, e ritenendomi oramai spacciato per aver contraddetto il Capo degli Extraterrestri, prima che mi riducessero in protoni vaganti volli cercare di salvarmi la buccia offrendo loro un’altra sigaretta, che accettarono fortunatamente di buon grado. Fu allora che, rincuorato un po’, mi azzardai a domandargli:
“Ma ‘nzomma….o che ci siete venuti a fà’ qui? Ci volete distruggere tutti? Conquistare la Terra?… Conquistare Galenzana…? Guardate che l’hanno già conquistata, fra un po’ si pappano anche Capo Poro e ci fanno un albergo a cinque stelle al posto del faro, il Cape Poro’s Luxury Hotel...”
Fui sommerso da una risata intergalattica, con tanto di pacche sulle spalle date con tutte quelle manine tentacolate verdastre, un po’ appiccicose e puzzolenti di chissà quale sconosciuto e orrendo tabacco interstellare, peraltro non molto dissimile da quello delle Esportazione che fumavo da adolescente. Parlò ancora il Capo (del quale non m’azzardai a chiedere il nome, del resto probabilmente impronunciabile nella loro lingua); mi disse che no, non avevano nessuna intenzione di distruggere il Pianeta Terra, “ché tanto”, sempre disse, “siete già bravini a distrùggevelo da soli, fave”. Zitto e muto, e uno a zero per gli Alieni.
Mi raccontò poi del lontanissimo pianeta Sciambere, un piccolo pianeta dalla forma strana (alcuni dicono quella d’un martello) che era una specie di paradiso terrestre, anzi extraterrestre, e che aveva per capitale la murata Kosmopolis, una città antica e moderna al tempo stesso, puntigliosamente funzionante in ogni suo aspetto, linda, sghignazzante (“ridente” sarebbe stato troppo poco), con le strade senza nemmeno una buca, un traffico ordinatissimo, un poderoso tribunale dove la giustizia veniva amministrata cinquantott’ore su cinquantotto (la durata del giorno è un po’ diversa su quel pianeta), e con un immenso ospedale dove la gente voleva andare anche da sana, da quant’era bello ed efficiente. Le arti e le scienze vi erano sviluppate grandemente, e messe interamente e gratuitamente al servizio della popolazione da un’amministrazione illuminata e improntata alla più disinteressata concordia, al bene pubblico e alla rigorosa salvaguardia dell’ambiente, dei monumenti storici e dei filari di pini; così pure la tecnologia avanzatissima, che già permetteva viaggi intersiderali a velocità smodate attraverso corridoi spaziotemporali, cancelli astrali e altre puttanate del genere che devo aver letto nei libri di fantascienza -dei quali vado peraltro matto.
Non potei fare a meno di rivolgere al Capo una domanda:
- “Scusatemi, Capo….e l’aroporto?...”
- “O secondo te, cosa ci se ne fa dell’aroporto…? Noartri ci s’ha l’astroporto e l’astronavi decòlleno e attèreno in verticale... e tutto ir pianeta ha una superficie di duecentoventitré chilometri quadrati...”
- “Allora un ciavete bisogno d’allungà’ nessuna pista…?”
- “O cosa voresti allungà’ te…? Se s’allungasse varcosa, si finirebbe direttamente in orbita!”
Costernato per quella domanda assai sciocca che avevo fatto, mi ardii ciononostante a fargliene un’altra:
- “Ma insomma…è vero, ciavète l’astronavi, tecnologia avanzatissima... ma poi sbarcate sulla Tera co’ una copia der Calimero…?!?”
- “Macché copia! Quello è il Calimero! Voi non potete sapere...”
E poiché non potevamo sapere, il Capo volle raccontarmela proprio tutta. Centinaia e centinaia d’anni prima, o comunque di chissà quale unità temporale viga in quel mondo lontano, gli astronomi sciamberiani si erano accorti, con le loro osservazioni strumentali di altissimo livello, che in una distante e insignificante galassia esisteva, su un curioso pianeta che pareva abitato (e sul quale si era scatenata una possente guerra accademica tra chi lo riteneva sferico e chi invece rotondo sì, ma piatto), una piccola entità territoriale dalla forma curiosamente identica a quella del pianeta Sciambere. Assolutamente uguale, ma piantata in mezzo a una grande massa apparentemente liquida. Sempre più incuriositi da questa casuale identità cosmica, vero e proprio capriccio del Big Bang, gli sciamberiani avevano deciso di mandare un’avanguardia d’esplorazione, inviando una loro astronave travestita da traghetto. Questa astronave-traghetto aveva solcato per anni e anni quella cosa liquida, che gli sciamberiani avevano appreso chiamarsi “mare” (sea, mer, θάλασσα, hav…), chiamandola “Maria Maddalena” (che, nell’incredibilmente difficile lingua sciamberiana, significa “Maria, ha’ finito di còce ir gurguglione che ciò una fame che allupo…?”); per meglio travestirla, avevan pure cominciato a fornire un servizio di trasporto per i passeggeri e per quelle buffe, arcaiche e puzzolenti scatolette a motore, che sul pianeta Sciambere erano state sostituite oramai da millenni da modernissimi turbocaretti a somaro ultrabionico finanche un po’ olistico. Lo scafo nero, che in realtà era un efferato propulsore a fascia autorigenerante ayurvedica, e le piccole dimensioni avevano fatto sì che l’ (astro)nave fosse chiamata “Calimero”, come il pulcino piccolo e nero del cartone animato dei fratelli Pagot; si diceva che andasse un po’ lenta, che ci mettesse du’ ore a fà’ la traversata se andava bene, ma era tutta una finta per non insospettire gli…
“A proposito”, mi chiese il Capo, “si sa tutto noartri di voi, tranne una cosa. Come si chiama ‘sto posto nella vostra lingua…? Come vi chiamate voartri…?”
Al tempo stesso, mi sentii intenerito e inorgoglito da quella domanda. Stavo per pronunciare quel nome per la prima volta davanti a degli abitanti di un mondo lontano. Per la prima volta quel nome sarebbe risuonato negli orecchi (a forma di trombetta, ndr) di pacifici alieni verdi, e sarebbe stato il primo nome terrestre che avrebbero udito. Conscio del momento che definire storico sarebbe un garbato eufemismo, mi alzai di nuovo in piedi facendo una fatica del diavolo, mi ersi in tutta la mia statura ed esclamai:
“Elba! Si chiama Elba. E noartri ci chiamamo l’elbanesi!”
“Elba?” mi disse il Capo. “Curioso, sa’ te. Da noi su Sciambere, è ir nome d’un dolce...”
“D’un dolce…?!?”
“Sì, si fa colle mandorle, l’uvetta, le noci e ir vino aleatikos...”
“Mandorle e aleatico? Ma è la schiaccia briaca!”
“Ma come...lo fate anche voartri…?”
“Boia!… ”
L’abbraccio, a quel punto, scattò automatico. Io, R.V., d’antica stirpe Becchigialla e unico essere umano in tutta la Storia ad aver avuto contatto diretto con gli Extraterrestri (altresì detto l’Incontro Ravvicinato della Schiaccia Briaca) ora ero lì a sollevarli uno a uno per portarli a quasi du’ metri d’altezza; e giù proboscidate, tentacolate, occhiate multiple, ìppe ìppe urà, evviva la pace intersiderale e l’amicizia tra’ popoli, anzi tra’ pianeti! Insomma, fai che non fai, oramai era notte. Di tornà’ a casa un ce n’avevo più voglia; tanto più che i simpatici sciamberiani avevano portato con sé un bel po’ di Elbe, ovvero di schiacce briache, e non si correva quindi il rischio di morire di fame. Unica cosa, a forza di far loro sigarette, avevo quasi finito il tabacco; ma pazienza. Rovistai un po’ nella borsa cavandone fuori gli ultimi rimasugli, rollai una sigaretta e gli dissi: “Oh, si tira un pè’ per uno...è l’urtima.”
“Un ti preoccupà’”, mi disse il Capo. “Un ti s’era detto, ma da Sciambere semo discesi con du’ astronavi. Una è qui, e l’artra vicino a quell’altro posto laggiù, no qui….come lo chiamate…?”
“Ehm…. Piombino?”
“Boh, è un posto grande, una città...c’è un porto...”
“Eh sì, dev’essere proprio Piombino...”
“Le sigarette le deveno portà’ loro ma c’è un problema...la su’ astronave s’è guastata...”
“Ohi...o con tutta la vostra tecnologia futuribile, vi si guastano pure l’astronavi…?”
“Eh, bimbo...ma quant’anni ciai, te…?”
“Perché?….Sessantadue...”
“Ecco, io ce n’ho millequattrocentottantanove, e quell’astronave lì me la ricordo da quand’ero bambolello colla proboscidina...”
“’Ah...capisco… O come si chiama quell’ astronave…?”
“ Elba Prima...”
“Ah ecco…..che in sciamberese vorebbe di’…?”
“Schiaccia briaca co’ meno uvetta e più noci...”
“Sa’ che ber pancone sullo stomaco...e ora come fanno a arivà’ qui, poveracci…?”
“Boh...dovevano piglia’ la corsa delle venti e trenta ma ci hanno mandato un messaggio interspaziale prima, dice che so’ bloccati in biglietteria e che ‘un parte nulla...”
“In...biglietteria?!? Ma, mi perdoni Capo...voi siete alieni! Estraterestri! Siete verdi colla proboscide, i tentacoli e se’ occhi…!!! O unn’hanno detto niente…?!?”
“Boh...dicevano che s’era una comitiva di pisani...o cosa sono i pisani?...”
“So’ quasi compagni a voi, però so’ viola e la proboscide ni pende dar bellico...”
“Mì’, bellini!”
“E ‘nzomma ora so’ lì fermi….”
“Te l’ho detto...è’ sartata la corsa delle venti e trenta...l’allerta meteo...dicèveno che arivàva l’uragano Ceccobau...”
“L’allerta meteo?!? L’uragano…?!? O se un tira un alito di vento e c’è ir mare sembra olio…!”
“O che lo so? Quando c’era ir Calimero un ne sartava manco una, anco se c’era ir mare forza trentotto...”
“O dillo a me se ‘un lo so...la continuità territoriale...”
“’Un me ne parlà, pensa a noartri che la continuità territoriale ce l’avemo co’ un pianeta che sta a diciott’anni luce da noi...se ci sarta una corsa i pendolari tornano a casa dopo centonovant’anni e ci si sta parecchio attenti...uno che voleva privatizzà’ ir servizio, n’hanno prima tagliato la proboscide, poi n’hanno ficcato un mezzo marinaio ner ventitré e l’hanno mandato in esilio a Sant’Elena...”
Commosso, feci quasi per invitarli a pernottare a casa mia ed offrir loro un caffè, sebbene non sia mai stato sindaco; ma il Capo mi rispose che non potevano allontanarsi dall’Astronave, ché tanto, a quel punto, il giorno dopo sarebbero ripartiti con anche gli altri extraterrestri lasciati a banchina insieme a una ventina di pendolari indigeni, a du’ ambulanze e a un camion di latticini che cominciavano a avellà’ dar fetore, sempre sperando che il giorno dopo non ci fossero altri problemi. Dovevano ripartì’ per forza il giorno dopo entro le cinque del pomeriggio, mi diceva, e mi dispiacque un po’ anche se, per ovvi motivi, di tutta quella avventura non avrei potuto certo far parola a nessuno. “Il vostro mondo non è ancora pronto, ma torneremo! A proposito...ma come si chiama il vostro pianeta?”
Ci pensai un po’ prima di rispondere. Poi giuro sulla barba d’Errico Malatesta che mi venne così, di getto:
“Si chiama...Hinterberg.”
“Ah! O che vordì…?”
“Vordì ‘Pomonte’ in tedesco...”
“Ah! Eh! E quindi non vi chiamate ‘terrestri’, ma...”
“Hinterberghinchi! Bello sì! Sentite, prima d’andàmmene vi posso chiedere un servizio?”…
“Ma anche dodici virgola sette periodico!”
“Ecco, ‘nzomma...un ci posso crède che quarche raggio trasformatore o arnese ipersensoriale positronico un ce l’avete… o che alieni siete, sennò…?”
“Ci s’ha, ci s’ha, sta’ tranquillo...”
“Ecco, un lo so come...però con tutti st’attrezzi un potrèbbite mia rimètte’ a posto Galenzana com’era prima… rifà’ ammodino ir muricciolo, levà’ di mezzo cantieri, cartelli, strade carrozzabili, proprietà private...aggiustà’ un po’ ir moletto… vi vedesse ir Soldatino v’abbraccerebbe anco lui con tutto ir somaro...”
“O chi è ir Soldatino…?”
“Lascia pèrde...”
“Lascio pèrde e sta’ tranquillo. Torna fra du’ giorni e vedrai. Però ti devo di’ una cosa. Domani, prima delle cinque, quando si riparte col Cali...coll’astronave, si farà un po’ di casino.”
“Casino? O come mai?”
“E’ che pe’ atterà’ si fa solo qualche fischio, ma pe’ ripartì’ bisogna portà’ i megamotori ultracatatronici tantrici ar massimo della potenza. E fanno un bel bordello, te lo garantisco. Cerca d’ un spaventatti, ma mi sa che qua intorno si cacheranno un po’ tutti addosso. E’ una specie di teremòto.”
“Ah. Ho capito bene, è propio come quando partiva ir Calimero, sembrava di stà’ a Messina ner 1908… ma poi, cosa gli dico in paese…?”
“Boh, inventati qualcosa…”
“Andrebbe bene un meteorite…?”
“Eh! Perché no! Un ber meteorite sì...un asteroide sarebbe un po’ troppo, ma ir meteorite funziona sempre...”
“Scusate allora...o un sarete stati mia voartri laggiù in Siberia...sempre ner 1908...”
“No, lì so’ stati vell’artre fave der pianeta Mylano, so’ sempre loro i più ganzi e poi hanno sbagliato rotta...”
“Si scatenerà un dibattito gonfio di polemiche.”
“E tu lascialo scatenà’. Fammi sape’ poi, ti do ir Vazzàppe.”
“Eeehhh?...”
“Sì, ir messaggio ciarìva fra trecentottant’anni ma funziona.”
“Boia.”
“Dé. Addio terr...no, scusa, hinterberghinco...come hai detto che vi chiamate…?”
“Elbanesi...”
“Addio allora hinterberghinco elbanese. Saluta la tu’ famiglia.”
E, in silenzio, a un cenno del Capo, tutti se ne tornarono sull’Astronave, o sul Calimero che dir si voglia. A quel punto ripresi maldestramente, al buio, la strada di casa, pian pianino e inciampando ogni tre passi; e poiché so’ più orbo di Lazzero Mortula che un vedeva manco l’acqua in mare, tiravo de’ moccoli da fà’ scènde Cristo dalla croce e fallo partì’ sdegnato cor fagottino minacciando rappresaglie, e con in testa una confusione siderale, una zuppa di nonsocché, un minestrone d’incognite, ma saravvéro? O un me lo sarò mìa sognato…? Alla fine, sfinito, riuscii a tornare a casa e m’addormentai sul portico, sulla vecchia sdraia della zia che quand’era viva un mi ci voleva fà’ ma’ mètte’ sennò gliela sfondavo, e la mattina dopo mi risvegliai sempre più convinto d’essermi sognato tutto quanto, ché il sogno è sempre una cosa molto rassicurante e, più che altro, spiega l’inspiegabile.
Il pomeriggio del giorno dopo, giovedì venti giugno 2024, scesi giù in paese per andare dal tabaccaio in via Roma a fare scorta d’ogni cosa: il Pueblo giallo, le cartine “Bravo”, i filtri OCB ultraslimme e l’accendino piatto con Napoleone sopra. Mi fece il tabaccaio:
“Mì, l’ha’ bell’e finito…? Ma ti vo’ propio ammazzà’…? O quanto fumi, alla tu’ età…?”
“No….è che me l’hanno finito tutto iersera l’extra...” Mi fermai appena in tempo.
“L’extra…?”
“L’extracomunitari! Boia, sempre a chiède ‘fradello tu avere zigareta...?’ ”
“Ah, pure fradello! E te fava lessa gliela dai...”
“Lo sa’ come so’ fatto, io so’ Nostra Patria è il mondo intero, nostra legge la libertà!...e poi, io una sigaretta non la rifiuterei manco a un marziano...e se a te te la chiede un inglese o uno svizzero, che fai…? O ‘un so’ extracomunitari anco loro…?”
Sette euri e cinquanta il tabacco; tre euri le cartine, due i filtri e due e cinquanta l’accendino con Napoleone. Poi dovevo andà’ pure da Martino, no scusate, alla Conad a pigliarmi qualcosa da mangiare, evitando accuratamente però la schiaccia briaca perché, accidentammé, m’era toccato farmi un’autentica overdose d’insulina da quanta me n’ero strippata la sera prima in Gale… Eh? Dé, màrdola, ma t’eri portato un panino cor tonno, la maionese e i capperi...ma quale schiaccia briaca…? Si vede che te la sogni anco di notte e che ti fa schizzà’ la glicemia anco a sognalla… Ma guarda un po’ te… Saranno state, che so, le quattro e mezzo del pomeriggio del primo giorno d’estate, e nel corso di Marina di Campo già si vedevano gli addobbi stagionali, compreso l’enorme gonfiabile co’ Superman, Supermario o Supermatteo, un mi ricordo mai bene, davanti a un negozio di ipersaccaridi glucidici termochimici là dove un tempo c’era ir macellaio Feola...e ogni volta che ci passo, mi prende l’insopprimibile voglia di spèngeci la cicca sopra e fagli fà’ un boato...
All’improvviso, infatti un boato tremendo. Gente che scappava terrorizzata. “Madonnasànta, ir teremòto!! Erdbeben!! Earthquake!!! Tramblemòn de terr’!!!”, tutti che urlavano in tutte le lingue. E io a sbracciarmi e a dibattere come un ossesso: “Ma no….ma nooo!!! L’Elba è an-ti-si-smi-ca!! Un meteorite!! Un meteorite!!” Qualcuno gridava, naturalmente, all’attentato islamico; beh, alla bomba non ci avevo pensato, ma -mi chiedevo in quei concitati momenti- gli islamici cosa mai dovrebbero voler far saltare, all’Elba? Il Residence Napoleon? Il rudere dell’ecomostro di Procchio? Ir grattacielo di Portoferajo? Qualche villetta abusiva sparsa qua e là? La stradina delle Fornacelle? Mah! Lì per lì m’eran venute reminiscenze cinematografiche, e m’era venuta voglia di correre urlando: “Il gas! Il gas!”, come nel film “Ogro” di Gillo Pontecorvo dopo che i baschi avevan fatto saltare in aria Carrero Blanco con tutta la macchina. Meglio di no, però. A volte ho di questi pensieri un po’ solforosi, ma in definitiva so’ bono come una pappa.
Però devo dire che il meteorite ha riscosso immediatamente largo successo. Me ne compiaccio abbastanza, anche se in quel preciso momento mi resi conto che no, non mi ero sognato proprio un accidente che mi portasse. Lo avevano detto, gli Extraterrestri, che avrebbero fatto un po’ di casino alla partenza, ecco. All’anima! Li avevano sentiti fino in Val d’Aosta! Mi avevano voluto avvertire, prima di tornarsene sul loro felice pianeta sperduto nel cosmo, oltre le galassie che più galassie non si può. Alzai per un momento gli occhi al cielo, e vidi scomparire un puntino luminoso, sempre più minuscolo, che si perdeva nelle infinitezze dello spazio. E pensare che quel puntino lo avevo preso più d’una volta, da ragazzino; una volta, mettendoci non due ma tre ore, avevo fatto la traversata sul Calimero con un mare come i monti, un due di novembre, da Piombino a Portoferraio. Ma ero arrivato senza problemi. Ora so perché.
Riccardo Venturi