C'erano una volta i platani in Calata, e non ci picchiava nessuno (o raramente, e al massimo, qualche barcollante briaco a piedi).
Se ne stavano lì tranquilli e rigogliosi da decenni, non rompevano i coglioni ad anima viva, anzi dispensavano aggratisse a ferajesi e ospiti, che sostavano sulle panchine di legno, una piacevole ombra, che era una benedizione nel contrasto delle calure estive.
Ma accadde che qualcuno degli amministratori allora in auge fece la bella pensata di rifare il look della città affacciata sulla Darsena, pavimentando i marciapiedi con vezzose mattonelline rosse.
I nostri a completamento dell'opera pensarono di effettuare un platanicidio di massa.
Era quella, tanto per cambiare, una compagine di centro-destra, e si sa che dai tempi del Puzzone (come lo chiamavano a Roma) i diversamente mancini sono improntati all'estetica del "pelato è bello", ed eccellono - come dimostreranno altre rapatorie successive vicissitudini - nell'arte segatoria (absit iniuria verbo).
In realtà costoro non pensavano di lasciare del tutto depilata la Calata, bensì di sostituire i volgari abbattuti platani con altra elegante essenza arborea proprio originarie dell'Isola: la magnolia (Magnolia grandiflora) di cui l'Elba, come ben si sa, è piena zeppa.
Con gran pompa si provvedè quindi all'impianto degli alberelli, che, se non andiamo errati costarono pure un pozzo di soldi.
Ma, come alcune Cassandre avevano vaticinato, in breve tempo, laddove i defunti platani avevano prosperato, alcune delle aristocratiche magnolie iniziarono a seccare.
Tra gli amministratori poi c'era chi sosteneva che i cordoli intorno ai fusti, costituivano un eccessivo inciampapiede.
"Dureranno quanto uno sbadiglio d'asino" avevano comunque detto i criticoni, e così pareva il destino evolversi.
Però i coraggiosi maggiorenti misero in atto un'ardita operazione di "salvataggio", espiantando quanto da poco piantato e destinando gli alberelli ritratti in foto "ad habitat più accoglienti", anche se poi - tra l'altro - non ci fu verso di sapere dove fossero finiti, alimentando i sospetti che o fossero tutti seccati o peggio che qualcuno li avesse "catubati" (presi in prestito senza obbligo di resa).
Ma se oscura fu la parabola finale delle Magnolie della Darsena, chiarissimo fu, dall'estate successiva, che la Calata deplatanizzata, e ormai guarnita solo da ridicoli cespugli capaci di far ombra sì e no alle formiche, diventava in estate un catino rovente, invivibile per lunghi tratti del giorno, una specie di forno crematorio, tanto quanto oggi ancora è.
Nel frattempo giunte e Sindaci d'ogni cromatismo si sono succeduti, ma nessuno si è mai preoccupato di rimettere a dimora quattro cazzo d'alberi veri (pardon) colà dove c'erano.
Visti i precedenti pinaioli dubitiamo che lo facciano i segatori al timone, aspettiamo arrostiti il prossimo giro.
Sergio
PS
Chiedo scusa e faccio ammenda: quelli che ho citati nell'articolo non erano platani ma alberi di "foresto" ailanto, come mi hanno fatto notare alcuni lettori: piante invasive, sì, ma nel caso abbasta contenute.
Ciò premesso poco cambia per quanto riguarda la benefica ombra che spandevano e l'odierna "fornace" determinata dalla loro assenza.
Nelle foto: la Calata ombreggiata dai platani (anni '80) e dopo dalle magnolie (anni '90)