Vorrei guardare in faccia l'ignoto autore che ha imbrattato la targa del palazzetto, dedicato a Monica Cecchini. Gli racconterei una storia. Quella di una ragazzina piena di voglia di vivere, innamorata della pallavolo, che quando schiacciava sembrava una potenza della natura. Io l'ammiravo, perché avrei voluto schiacciare come lei, ma non mi riusciva. Ero goffa, lei volava. Una giovane promessa elbana.
Gli racconterei di una ragazzina e il suo motorino. Allora il casco non era obbligatorio. Sentivamo l'aria nei capelli, era bello e rischioso. Fu un attimo. Un'auto. Un urto. Sbatté violentemente la testa.
Nonostante il sangue, l'asfalto spietato, lei non si arrese. La corsa disperata all'ospedale. L'elicottero. Lei resisteva. L'operazione al cervello. Non mollava. Era forte, un fisico atletico, andò avanti per cinque infiniti giorni. Il cuore resisteva. Noi eravamo in apnea per quella giovane vita. Poi l'arbitro fischiò la fine.
Ricordo il dolore della famiglia, della sorella, delle cugine, di tutti gli amici. Aveva 17 anni.
Mi spiegate adesso, ignoti signori imbrattatori, cosa ci trovate da ridere? Vi sentite davvero così ganzi?
Un'ultima cosa. Già l'anno scorso avevo notato l'incuria del palazzetto e della targa, da cui erano cadute delle lettere. Degrado che richiama altro degrado. Quando le parole si spezzano, quando i luoghi si ammalano di squallore urbano, il rischio è che anche le persone smarriscano la via.