Quello che resta di una famiglia
Si è spento stamani Mauro Leonardi, per tutti “capo” Leonardi.
Di Origini romane (suo padre lavorava in Vaticano), si era arruolato appena maggiorenne in Marina e, prima di mettere radici all’Elba, prestando servizio in Capitaneria di Porto a Portoferraio, era stato anche imbarcato, per più o meno brevi periodi.
In paese aveva sposato una giovane del posto, Patrizia Cherici, e messo su famiglia, era conosciuto ed apprezzato, non soltanto come militare ma anche, una volta andato in pensione, come figura dietro al banco nel negozio “Disco Shop” in centro storico a Portoferraio.
Aveva l’occhio lungo nel commercio Mauro, spesso percepiva gli avvenimenti prima che accadessero.
Ne avrei molti di episodi da raccontare: del negozio, della Capitaneria, delle feste, del suo modo di essere tifoso (menzione speciale per il mitico il Dyane biancoceleste).
E mi considero un privilegiato per aver potuto trascorrere, grazie al nostro legame di parentela, la più bella fetta dell’adolescenza nelle viscere del Forte Falcone: Mauro ne è stato l’ultimo custode e per tredici anni vi ha abitato con la sua famiglia.
Tutti questi ricordi sono accomunati da una cosa sola, la gioia.
Perché Mauro era gioia e trasmetteva gioia.
E con gioia si dilettava ai fornelli, la sua grande passione, era veramente un cuoco sopraffino.
Chiunque abbia avuto modo di assaggiare alcune sue pietanze, non potrà che confermare.
Poi, l’anno scorso, la malattia, la brutta malattia.
L’amianto lo stava mangiando da dentro, la diagnosi parlava chiaro.
L’amianto? Ma in vita sua dove mai poteva essere stato a stretto contatto con l’amianto?
Proprio sulle navi, quando era imbarcato: percorrendo a ritroso nei ricordi, non poteva essere che lì.
Non è certo l’unico caso.
Ha provato anche a reagire Mauro, è stato operato e curato al reparto oncologico dell’ospedale di Pisa.
Lo stesso dove era stato operato e curato, purtroppo invano, Claudio, il minore dei suoi due figli.
Stessi corridoi, stesse stanze, stesso personale.
Un déjà vu, te lo immagini il morale?
No, non te lo immagini, non è possibile rendere l’idea.
Nonostante ciò, ha mostrato una tenacia fuori dal comune Mauro, sottoponendosi alle cure con incredibile entusiasmo e positività.
E gioia, inteso come gioia di vivere, fino all’ultimo.
Quest’estate, seppur con l’aggravarsi delle condizioni di salute, ogni giorno, dopo pranzo, si rivolgeva alla moglie, impegnata a rassettare la cucina, in tono militaresco (accentato romanesco): “Annamo!!! Taa dai na mossa?”
Voleva essere accompagnato all’Enfola, gli piaceva starsene lì, sulla spiaggia, al fresco sotto i tamerici.
Se n’è andato il 7 novembre, lo stesso giorno del compleanno di Claudio: chiamatela, se volete, coincidenza.
Credete che sia finita qui?
Patrizia nel giro di poco tempo ha già perso, nell’ordine, un figlio e la sorella ed ora, a soli tre giorni di distanza dal fratello, anche il marito.
Certo, avete letto bene, tre giorni di distanza.
Ma c’è dell’altro: stamani in camera mortuaria (stanza 6) c’è stato un vero e proprio passaggio di consegne.
Mentre una salma, di buon’ora, prendeva la via di Livorno per la cremazione, l’altra, qualche ora dopo, prendeva il suo posto.
Ed ora vi racconto anche di Alberto Cherici, il fratello maggiore di Patrizia, che già nel 2003 era stato colpito da un ictus che aveva lasciato il segno.
Nel fisico. Nella mente no, ci voleva ben altro.
Accudito e coccolato nella sua quotidiana invalidità dalla moglie Adelina - santa subito - Alberto (ex infermiere e prima ancora, dal Tomei, imbianchino) era ancora la memoria storica della famiglia, aveva conservato intatta una capacità di analisi lucida e di sintesi unica, roba da far invidia al migliore degli atenei.
Non usciva mai di casa Alberto, non poteva, ma si dava da fare lo stesso.
Aveva imparato, a sessanta anni suonati, a smanettare col computer (che risate quando ci fu da cambiare la cartuccia alla stampante….) e soprattutto aveva ripreso a maneggiare i pennelli: dipingeva.
Ora io non me ne intendo, ma i suoi lavori non sembrano niente male.
A questo punto, logica vorrebbe di fermarsi qui e rispettare, in silenzio, il dolore della famiglia.
Quello che resta della famiglia.
Invece, forse, vale la pena spendere due paroline per Patrizia, una donna straordinaria.
Quante tragedie annunciate ha dovuto fronteggiare, finali già scritti al termine di calvari interminabili.
Corpi che se ne vanno un poco per volta, consumati senza fretta, cucinati a fuoco lento.
Tumore.
E le anime di chi resta messe a dura prova, intrappolate nella dannazione un poco per volta, ogni giorno di più, chi ci è passato lo sa.
Detiene un triste primato Patrizia, perché con lei il fato ha davvero calcato la mano: finito un calvario, ne cominciava un altro. Sovrapposti anche.
Una condanna.
Ad un certo punto parlava anche come i dottori Patrizia, con tutti quei termini scientifici divenuti ormai familiari, e all’occorrenza si sostituiva agli infermieri, logicamente andando oltre.
Un episodio su tutti: nell’ultimo ciclo di chemio con Claudio, è accaduto questo.
Lui era debole, ridotto allo stremo, con le difese immunitarie pressoché inesistenti e quel farmaco tramite flebo proprio non lo tollerava più, gli veniva subito la nausea.
Però doveva provarci lo stesso Claudio, ago nella vena e via, quel liquido era l’unica, ipotetica salvezza.
Allora Patrizia con una mano gli stringeva la sua e con l’altra (neanche tanto di nascosto) armeggiava con la rotellina, diminuendo o aumentando il dosaggio a seconda di che cosa gli leggeva nello sguardo.
E pazienza se ci si impiegava il doppio o il triplo del tempo previsto, ogni goccia in più era preziosissima.
Non si direbbe, ma in questi anni quel corpicino minuto di Patrizia è stato in grado di sorreggere sulle proprie spalle, un’infinità di volte, pesi enormi, inimmaginabili.
Senza il benché minimo cedimento perché, in quel contesto, nelle quattro mura scenate isteriche, lacrime e lacrimucce non erano consentite.
Anzi, al contrario, è stata maestra di vita Patrizia, vuoi nel dare incessantemente un lumicino di speranza, vuoi nell’alleviare le pene, dispensando carezze e sorrisi laddove, di ridere, c’era tutt’altro che motivo.
Dove abbia trovato il coraggio e la forza, solo Dio lo sa.
Ha sofferto tanto Patrizia, ma per tirare avanti non aveva alternative, è stata costretta a spostare un poco per volta, ogni giorno un po’ più in là, il limite di sopportazione.
Al dolore.
E, ripercorrendo un sentiero già solcato, a suo tempo, con le vicissitudini dei genitori, ha accompagnato i suoi cari nell’ultimo tormentato viaggio così, come meglio gli è riuscito, come meglio non si può.
Con amore.
Un incrollabile amore. Un infinito amore.
Come il canto di una sirena, un dolce richiamo dall’aldilà attrae Patrizia al camposanto, tutti i giorni.
La cura che impiega nel sistemare fiori, piante e piantine è un rituale di piccoli gesti, semplici, lenti, armoniosi, che sembrano coccole.
Attenzione però: se vi capita di incontrarla, non la vedrete mai piangersi addosso, ma camminare a testa alta, con magari la battutina sempre in canna, quello sì.
Michelino.