Si partiva presto la mattina, appena faceva giorno passavo a prenderti con la mia cinquecento; alzavi una mano in segno di saluto vedendomi sbucare nella piazzetta davanti casa, e salivi a bordo con l’immancabile papalina di lana rossa incredibilmente in bilico sulla testa.
« Buongiono “giometra”» non facevo mai in tempo ad anticiparti
“Buongiorno Giovanni!”
«Signorina Daniela come sta?»
“Sta bene, grazie Giovanni.»
Per te la giornata era già cominciata da un pezzo, nell’orto, e con sei figli da mantenere con Maria. Continuava in cantiere, tra casseri e cemento armato, ferro piegato e solai; caldo e freddo non faceva differenza. Altre volte andavamo con la tua 127 color arancio; una settimana ciascuno, più o meno.
Si andava a lavoro presto, si tornava tardi, stanchi ma soddisfatti. A mezzogiorno una pausa, seduti con gli altri, su un mattone o un ballino di cemento, un tavolone. Spesso il mio panino era rinforzato da una parte del tuo pranzo, composto quasi sempre da “su bistoccu” e pastasciutta che Maria ti preparava la sera prima. Quattro chiacchiere, racconti, un eternamente presente accenno ai tuoi amati figli, una sigaretta e di nuovo al lavoro.
Ricordo quando (racconto qui solo uno dei tremila aneddoti che ricordo), rimasto sorpreso nel vederti la prima volta piantare un chiodo tenendo chiodo e martello con una sola mano mentre l’altra reggeva “sa mascellasa” (uno scorcio di tavola), volesti insegnarmelo subito: non l’ho più dimenticato quel gesto tra innumerevoli altri, e nel tempo l’ho apprezzato per la sua infinita semplicità pari solo alla sua utilità che può essere compresa solo da chi, come te, fa il carpentiere. Eri bravo, Giovanni, tutti i tuoi uomini seguivano le tue parole, i tuoi gesti erano ordini accettati da loro con riconoscenza per tutto ciò che gli stavi insegnando.
«I miei ragazzi no, “giometra”, ma tanti credono che una borsa attaccata al culo faccia di loro dei carpentieri, ma “giometra”, non è così, ci vogliono anni di esperienza e tanta passione”.
Era ed è vero.
L’italiano era perfetto e il tono gentile, come quello di un padre, ma l’accento sardo si sentiva, e sardo puro senza accento italiano diventava quando qualcuno dei tuoi ragazzi sbagliava a passarti i materiali o si metteva in qualche pericolo e dovevi richiamarlo all’ordine. Non avrebbe più sbagliato, questo era sicuro dopo la tua fulminea ripassata, di poche parole e sguardi dritti e decisi, a completamento del concetto.
Io ascoltavo e non mettevo bocca: toccava a te, al capocantiere guidarli. Mai e poi mai ho anticipato tuoi apprezzamenti, ordini o reprimende a carpentieri, ferraioli e manovali.
Era il 1977, e l’anno dopo mi chiedesti di aiutarti a tracciare le fondamenta della tua casa.
Conservo ancora le foto di quel cantiere, di quella casa finalmente solo vostra, tua, di Maria e dei tuoi figli.
In una c’è anche Bruno, il maggiore dei tuoi magnifici sei che da ieri mattina, da quando ci hai lasciati, hai potuto riabbracciare.
In un’altra c’è Astor, il tuo grande bonaccione e ultrameticcio cane fedele che montava la guardia, con un orecchio su e uno giù, affinché quel mascalzone della notte prima non tornasse a rubarti i pochi tavoloni rimasti dopo la prima infame incursione. Riuscisti a cavartela lo stesso, come sempre, con quello che avevi.
I decenni sono passati, la tua vista è calata, un giorno è comparso anche un bastone per darti appoggio nelle tue lunghe camminate da casa per andare prima da Bruno e poi a fare la spesa per Maria, ma incontrarci per strada era sempre motivo di amarcod delle tante battaglie.
«Alla prossima, Giovanni, un abbraccio a Maria!»
«Maria ricambia, saluti a Daniela.»
Mancherai molto Giovanni, non solo a Maria, Clelia, Patrizia, Cristina, Maurizio, Mariano e nipoti.
Buon viaggio vecchio amico mio!
Nicola Gherarducci
(sempre tuo affezionato “suggiometra”, come quarantatre anni non fossero passati)