Ora mi sembra incredibile, ma quando scoppiò la bomba nella stazione di Bologna avevo quasi un anno meno di mio figlio e lavoravo, praticamente nudo, nero come un marocchino, con addosso solo un paio di pantaloncini induriti dalla salsedine, al distributore di benzina ad un passo dall’“Atore” di Marciana Marina, da Remo Adriani, l’arguto capo dei comunisti marinesi.
Allora non c’erano Internet e i telefonini e la notizia ci arrivò dopo ore, come da un altro mondo, già orribilmente vecchia, mentre Remo scazzava sulla panchina con Cesarino Baroni, circondato dall’attenzione di qualche perdigiorno che veniva a guardare le barche che facevano rifornimento e soprattutto le belle signore a bordo con poco addosso.
A Remo lo dissi io, che allora ero già il segretario o qualcosa di simile del PCI, e che avrei comunque dovuto scrivere il manifesto da affiggere nella bacheca dei comunisti in Piazza di Sopra, che era il Facebook o il Twitter politico di allora. Con Remo concordammo subito, a caldo, che era sicuramente una strage fascista, l’ultima e la peggiore della lunga serie che aveva bombardato e insanguinato treni, banche e piazze di un’Italia assassinata dal terrorismo nero e rosso, che avrebbero ucciso ogni speranza e che hanno innescato la deriva che ci ha portato dalle ideologie all’assenza di ideali di oggi.
Un ricco signore che stava facendo più di mille litri di benzina al suo motoscafone ci disse che era la solita storia: “come fate a incolpare i fascisti?”. Remo, che era già anziano ma conservava una mole e una grinta che incutevano ancora paura, lo mandò gentilmente affanculo. Nessuno aveva più voglia di scherzare o di guardare il culo della ganza del tipo e Remo chiuse il distributore con qualche anticipo, ma io era già stato mandato in sezione a scrivere il manifesto di condanna della strage di Bologna.
Solo oggi, a 34 anni di distanza, leggendo su un vecchio video riemerso su YouTube i nomi di quelle povere vittime bruciate, frantumate e disperse da quella nera bomba stragista, mi sono reso conto di quanti giovani, miei coetanei di allora, come mio figlio oggi, ci fossero in quella stazione, in quel momento senza partenza e senza più ritorno.
Erano probabilmente come eravamo allora: giovani migratori, "capelloni" armati di zaino, con molte idee confuse, pochi soldi e forse senza biglietto del treno in tasca, pronti ad un’avventura della quale conoscevano solo la prima fermata. Alla scoperta di un mondo che non avrebbero mai visto e di baci che non avrebbero più dato.
Quello che non capimmo allora, nemmeno quando le parole “vittime innocenti” ci rotolavano nella bocca e nella penna, era che al di là dell’oscuro, crudele e letale disegno politico che avrebbe cambiato l’Italia, quella bomba era contro la normalità, il sorriso e le speranze di un popolo, era contro le famiglie ed i giovani scapestrati che sono stati spiaccicati sui muri e schiacciati sotto le macerie.
Sapevamo che quella bomba aveva fatto crollare un pezzo di futuro e di speranze collettivi, ma non comprendevamo ancora lo spreco inumano di vite normali non vissute, di ragazze che non avrebbero avuto figli, di frikkettoni che avrebbero messo la testa a posto e si sarebbero sposati, in chiesa o in comune non importa, di bimbi e nipoti da crescere, di una vita fatta di preoccupazioni e sorrisi, incazzature, tradimenti ed amori eterni. Della vita che abbiamo avuto la fortuna di vivere perché, alla fine, a Bologna, un secolo fa, avremmo potuto esserci anche noi ad aspettare il treno del futuro.
Umberto Mazzantini