Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che “mi piace”.
Eh già, ormai va così, ormai (in rete e non) è una spasmodica ricerca anziché dell’essere, dell’apparire.
Ad ogni costo.
Ormai nell’immaginario collettivo il “like”, talvolta mendicato scabrosamente, è un metro di giudizio infallibile ed una “bannata” il peggiore degli oltraggi.
Accade dunque che un giovane trentenne posta, corredato da foto, un banalissimo “porto la mia piccola bambina a fare il vaccino” (o qualcosa del genere) ed in poche ore ottiene due milioni e mezzo di “mi piace”: perché?
Perché luilì è Mark Zuckerberg.
Ma in che mondo siamo?
Proviamo un po’ a parlare di musica, forse è meglio.
A proposito: sapete qual è su Youtube il video più cliccato di sempre? Un video musicale.
Oh che bello, peccato però che il protagonista sia un imbolsito coreano che scimmiotta sulle note di una caciara pseudo-melodia, con l’occhialino da sole d’ordinanza, per ben quattro minuti.
Dice sia musica, e ballo, anche quello, mah……
Andiamo sui cd, andiamo sul sicuro.
Ho ascoltato di recente l’ultimo cd della Mecogang, uscito da pochi giorni.
Potrei dirvi che la longeva band, rigorosamente elbana, è in formazione “titolare”: Stefano Tanghetti, Andrea Ferro, Domenico Parrella, Luca Anselmi, Marco Paolini.
Potrei dirvi che alcuni arrangiamenti sono davvero originali e gli strumenti utilizzati molteplici.
Potrei dirvi che in un brano il gruppo si avvale della collaborazione di Massimo Morriconi, al secolo il bassista storico di Mina.
Potrei dirvi un sacco di cose di questo disco ma invece non vi dico niente perché un critico musicale non sono.
Sono soltanto un coetaneo del Meco, uno che lo conosce da tanto, come Stefano (il soprannome, poi diventato nome d’arte, è venuto dopo); abbiamo condiviso alcuni frammenti dell’infanzia e dell’adolescenza, tipo i primi calci ad un pallone, le prime scorribande in bicicletta alle Ghiaie o altre esperienze giovanili.
Poi, come spesso accade nella vita, ci si perde di vista ed ognuno prende la sua strada.
La mia mi ha portato a sposare la fidanzatina di allora e di mettere al mondo, insieme a lei, quattro splendidi bambini.
La sua è stata, diciamo così, un po’ meno lineare.
Ascoltando attentamente “Basta che funzioni”, il suo ultimo lavoro, lo si capisce.
Perché hai la percezione, più che altro, di essere al cospetto di un cantautore incastonato in una band, l’uso sistematico della prima persona singolare non si spiega altrimenti.
E’ un album questo fortemente autobiografico.
E’ sempre stato autobiografico Stefano, sin dai primi tempi, è nel suo pedigree.
Ma, come tutti, anche lui non è immune dal percorso, è fisiologico.
Che percorso? Il semplice, naturale corso delle cose.
A vent’anni si vuole spaccare il mondo o, nella migliore delle ipotesi, fare la rivoluzione.
A trenta si ragiona di più con la propria testa, sia pur non apprezzando mai abbastanza il giusto ed enfatizzando oltremisura lo sbagliato; va finire poi che, spesso e volentieri, il treno degli ideali e delle insicurezze imbocca dei binari con ai lati vertiginosi precipizi.
A quaranta il treno arriva alla stazione.
A quaranta è tempo di responsabilità, di riflessioni, di bilanci e giocoforza, qualsiasi sia stata la semina a monte, di primi raccolti.
Questo nell’album traspare nettamente, anche perché i testi sono schietti, diretti.
I temi affrontati non sono astratti, bensì concreti e, plausibilmente, toccati con mano.
Strofa per strofa, parola per parola: si ha la sensazione che l’autore parli con cognizione di causa.
E’ più un pregio o un difetto? Dipende, è soggettivo, lo si stabilisce ascoltandolo.
Il tutto è innestato in una musica orecchiabile, piacevole, a tratti anche (opinabile parere) geniale, poiché, se è vero che Stefano è un creativo musicista a tutto tondo, è altrettanto vero che è coadiuvato da una band con gli attributi: un connubio formidabile.
Me lo ricordo ancora quando, con poca barba e tanti capelli (stoccatina, ops!), strimpellava l’heavy metal di fine anni ottanta……ma ora, come ho avuto modo di dirgli anche di persona, ha compiuto una metamorfosi mica da ridere.
La sua strada lo ha portato a guadagnarsi il pane con la musica, un lavoro come un altro qualcuno osserverà.
Mica tanto a pensarci bene: provarci è per tanti, riuscirci è per pochi.
Nemo propheta in patria ovviamente e lui, che è di Portoferraio, “esercita” a Firenze.
L’uscita di “Basta che funzioni” nell’ambiente è piuttosto attesa, anche nel senso di attesa al varco.
Ma l’eventualità che l’autore abbia compiuto un bel salto di qualità è stata presa, sul serio, in considerazione? No?
Probabilmente non sarà mai invitato a suonare all’intervallo del Super Bowl in America, ci mancherebbe, ma ogni anno, a Sanremo, forse c’è di peggio.
E allora sai che c’è?
Nell’attesa che “Basta che funzioni” funzioni davvero e nella speranza di ascoltare, finalmente, una sua hit in qualche radio nazionale, mi gusto questi brani uno alla volta.
A casa con le cuffie o mentre sono in macchina.
Canticchio e fischietto i ritornelli che mi piacciono di più e se mi pare, al riparo da occhi indiscreti, assecondo la chitarra muovendo velocemente le dita delle mani.
Nemmeno suonassi io, che non so neanche se la chitarra si imbraccia a destra o a sinistra.
Me ne torno agli albori, senza il mi.
Non la nota musicale, il pronome personale.
Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.
Michele Melis