Un lettore (“Venerdì” di “Repubblica”, 15 dicembre 2017) scrive a Michele Serra: “<…>Il problema a mio parere non sono le fake news, ma la mancanza di un nuovo credo al quale ispirarsi, la mancanza di configurazioni di riferimento. La domanda da porsi è: chi creerà il nuovo Dio? Che caratteristiche avrà? Su quali falsi sarà creato? Esagerando: serve un nuovo Dio. Una fake news illuminata potrà crearlo”.
La risposta di Serra è, come sempre, lucidissima: “Se capisco bene, caro lettore, il suo paradosso è questo: poiché ogni civiltà si fonda su un falso mito (tale va considerato, in sede nazionale, il mito del figlio di Dio che si incarna in una Madre Vergine) urge crearne uno nuovo di zecca per ricostruire un nuovo credo virtuoso che rimetta ordine nell’umanità allo sbando.
Mi viene da dire: fate pure, ma non contate su di me. Per me vale l’irrimediabile convinzione che la vita (e la sua conseguenza, che è la morte) debbano essere accettate per ciò che sono, una radiosa casualità della quale dobbiamo essere entusiasti e alla quale dobbiamo essere grati. Non sento bisogno d’altro che di questo umile inchinarsi alla natura: un sentimento molto “religioso”, se religioso significa riconoscere che esiste un legame fra tutte le cose. Volendo, una fake news illuminata fu l’idea che il socialismo avrebbe sicuramente fatto nascere una Nuova Umanità: fin qui ancora non segnalata. È servito, volendo, a diffondere speranze e a reclamare maggiori diritti.
Ma la mia impressione è che, per ripartire, per migliorare, tra le macerie dei vecchi miti (Dio è morto, il socialismo è morto eccetera) sia saggio ripartire da una true news, una notizia vera: che niente potrà salvarci se non la nostra ragionevolezza, il nostro senso del limite e un sentimento di fratellanza che prescinda da ogni dogma religioso e da ogni mito razziale”.
Il ragionamento potrebbe concludersi qui. Ma il riferimento al Mito, e l’accostamento stabilito fra Mito e fakenews induce a soffermarsi un momento.
In effetti negli ultimi decenni il termine Mito è stato inflazionato, e ha finito per perdere il suo significato autentico: per un certo periodo è entrato anche nel gergo pop, per indicare la pura e semplice eccezionalità di performance di questo o quel divo, di questo o quell’amico, di questo o quello sportivo (declino per comodità al maschile-neutro, con buona pace di Boldrini e Gruber). Ma la banalizzazione non è senza significato. Anzi, più che di banalizzazione si tratta di uno stravolgimento corrispondente a una vera e propria mutazione culturale. Nella nuova accezione di significato Mito equivale a fake news e a post verità. Ha perduto ogni relazione con la realtà per proiettare immagini in un universo di fantasia che esaurisce la sua luminescenza nel breve spazio della “moda” –che in latino indica la contemporaneità-, in un susseguirsi incalzante di proposte già trapassate appena dopo essere state presentate. Vale per artisti, opinionisti, cuochi, filosofi, intrattenitori, comici, satiristi, stilisti, ecc. E’ un consumo compulsivo, con importanti risvolti economici –tutto si deve consumare, per poter passare a consumare il nuovo- in un mondo dove il paradigma economico è diventato assoluto ed esclusivo. Così il termine Mito serve per descrivere l’eccezionalità, assunta come tale e come accertata. E così la religione, per tornare alle considerazioni d’apertura, diventa mito, cioè si qualifica per gli elementi di eccezionalità –i “miracoli”, cioè i prodigi che la accreditano- e la sua “verità” è stabilita dalle sue “conseguenze” (la statua della Madonna piange, quindi la Madonna è portatrice di santità) e non la conseguenza dalla sua “verità”.
Nella Grecia preclassica, che ha visto l’invenzione e la fioritura di numerosi e splendidi miti, il rapporto era esattamente inverso: il Mito spiegava una realtà altrimenti oscura e impenetrabile, e forniva un plausibile conforto alle angosce umane, prima fra tutte quella della morte. Nessuno si interrogava sulla verità intrinseca e positiva del mito: gli dei dell’Olimpo si limitavano a rappresentare la proiezione di virtù e vizi degli uomini depurati dall’umana imperfezione, ma anche le complesse dinamiche delle relazioni interumane che venivano così sottratte alla banalità e alla pochezza dei terrestri. E chi “amministrava” la “religio” -il sistema dei racconti mitologici- li interpretava cercando di orientare i comportamenti sociali nel modo migliore o più conveniente alla prosperità comune.
Il passaggio alla filosofia e poi alla scienza spostarono l’attenzione dalla “spiegazione” alla cause dei fenomeni, e la narrazione si volse a cercare i fondamenti di verità (di corrispondenza alla realtà sperimentabile) degli eventi, dei fenomeni, delle dinamiche storiche, economiche politiche. Il mito rimase nello sfondo, continuamente modificandosi fino a perdersi.
Ecco perché trovo preoccupante l’attuale “revival” del Mito nelle forme aggiornate delle fake news o della post verità. Mi pare una regressione verso un modo di “sentire” primordiale, semplicistico, artificioso, dove le risposte si prendono per buone anche senza fare domande.
Un esempio per tutti: Narciso. Era un giovane bellissimo, che si compiaceva della sua avvenenza e se ne appagava, al punto da rimanere incantato dalla propria immagine riflessa in un laghetto, fino a innamorarsi di sé. Il “Mito spiega” così quell’istintivo sentire degli uomini –e segnatamente dei maschietti- a cercare e trovare nel proprio apparire (fuori di sé, dunque) ciò che li rende degni d’attenzione, li rende desiderabili, li fa apprezzare. Narciso diviene simbolo di quanto accade a ciascuno di noi ogni volta che passiamo davanti a uno specchio, e istintivamente ci aggiustiamo i capelli o leviamo un bruscolo dal volto.
Ma oggi Narciso non si limita a guardarsi nello specchio. Il laghetto è diventato un “selfie”; così oltre a innamorarsi di sé può anche raccontarsi di far innamorare tutti quelli che lo vedono in foto (o così spera), e sposta l’angoscia della propria accettazione o non accettazione un po’ più in là, fuori di sé, dove appare sfumata perché “condivisa”.
E il Mito non spiega più nulla, ma racconta solo una affannata malinconia.
Luigi Totaro