Joseph Ratzinger ha deciso di lasciare la guida della Chiesa di Roma e della Chiesa Cattolica. E’ un evento sicuramente straordinario, sul quale conviene fare qualche riflessione.
Si è parlato, nei commenti di questi giorni, del precedente di papa Celestino V che si dimise dopo cinque mesi dalla sua elezione (5 luglio-13 dicembre 1294), e si è fatto riferimento ai papi dimessi (Giovanni XXIII, Baldassarre Cossa) o dimessisi (Gregorio XII, Angelo Correr) al Concilio di Costanza (1414-1418).
Ma questi dotti accostamenti rischiano di non far cogliere il significato più profondo della scelta di Benedetto XVI.
E’ necessario, dunque, qualche richiamo storico. L’immagine che noi abbiamo del Papa, del Sommo Pontefice, delle sue prerogative, dei suoi poteri, della sua natura istituzionale è relativamente recente: la sua definizione è del luglio 1870, promulgata nel Concilio Vaticano I con la Costituzione dogmatica De Ecclesia Christi (nella quale si enuncia anche la dottrina dell’infallibilità del Romano Pontefice in materia di fede e di morale). La dottrina allora definita fu molto controversa in Concilio, e alla votazione partecipò di fatto solo la componente dei vescovi italiani, mentre molti Padri Conciliari lasciarono in anticipo Roma: non ci soffermiamo sugli aspetti dottrinali della discussione, che sono assai complessi; basta per ora notare come la definizione canonica risale a meno di un secolo e mezzo fa. Prima di allora per la dottrina sulla natura del “munus Petrinum” –come ha detto Benedetto XVI-, del “ruolo di Pietro” e dei suoi successori nella Chiesa non abbiamo riferimenti univoci.
Certo è che i Vescovi di Roma, soprattutto dopo la fine delle persecuzioni e il riconoscimento da parte dell’imperatore Costantino (313 d. C.), hanno sempre sottolineato il “primato di giurisdizione” della Sede Romana su tutta la Chiesa, mentre le altre Chiese –a partire dalle sedi patriarcali di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli- hanno riconosciuto solo un “primato d’onore” a Pietro e ai successori, come “primus inter pares”, primo fra pari, fratello maggiore.
Su questa differente concezione si sono avuti dissensi anche aspri a partire dal Concilio di Nicea (325), fino al Grande Scisma d’Oriente del 1054 -con la Chiesa Ortodossa-, e alla guerriglia delle Chiese locali d’Occidente culminata nelle Costituzioni del Concilio di Costanza (1414-1418), che sostenevano la superiorità giurisdizionale del Concilio ecumenico anche sul papa (Costituzione Haec Sancta, aprile 1415). Del resto, dopo l’epoca eroica dei martiri e la grande riforma di Gregorio Magno (papa dal 590 al 604), negli ultimi secoli del Primo Millennio la storia del papato romano è essenzialmente storia delle lotte interne alle grandi famiglie romane, che con la collocazione sul trono di Pietro di un proprio congiunto intendevano controllare i domini territoriali progressivamente accumulatisi nei secoli fino a raggiungere l’estensione di un importante principato: e la procedura elettorale del Vescovo di Roma –per acclamazione del clero e del popolo romano, facilmente condizionabili- favorì a lungo il decadimento del ruolo papale. Al punto che, coll’inizio del Secondo Millennio, un gruppo di monaci decise di intervenire con un processo di grande riforma della Chiesa (Riforma Gregoriana), che vide come primo atto significativo la definizione di una nuova procedura per l’elezione papale (Decreto In nomine Domini, di Niccolò II, 1059), corrispondente sostanzialmente a quella tuttora vigente.
Intanto come Capo della Chiesa si riconosceva, fin dall’epoca di Costantino il Grande, proprio l’imperatore, che del resto ricopriva la funzione di Summus Pontifex già con Augusto; e dopo l’estinzione dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la sua restaurazione nell’800 con Carlo Magno e i suoi successori, nell’Impero riprese quella tradizione, che culminò con Federico II Imperatore, al quale sembra doversi la definizione di Sacro aggiunta a quella di Impero Romano dovuta a Carlo Magno (800). Il sogno da questi vagheggiato era tramontato con lui, e il frazionamento della sua eredità poneva le basi per i regni nazionali, destinati ad affermarsi progressivamente: e ogni sovrano si riteneva anche Capo della Chiesa della sua nazione, pur se –quando di necessità- riconosceva al papa un “primato d’onore”. Con gli imperatori e i sovrani ben presto entrò in conflitto la Chiesa, potendosi valere del proprio carattere di universalità, e quindi della capacità di superare i particolarismi nazionali. Ma non si deve dimenticare che a decidere era poi la forza delle armi, e questo richiedeva ai papi (che non avevano eserciti) complesse politiche di alleanze e di mediazioni: per liberarsi del grande potere degli imperatori svevi i papi dovettero chiamare in soccorso gli Angioini (1260), ma poi entrarono nella sfera di influenza francese.
Proprio in un momento acuto di quella crisi (col tentativo dei prelati italiani e soprattutto romani di riassumere il controllo del papato) si colloca la vicenda di Celestino V, il fautore –e poi successore- del quale, Bonifacio VIII apparteneva appunto alla potente famiglia romana dei Caetani. Il tentativo fallì, e il papato si trasferì in Francia, ad Avignone, dal 1309 (Clemente V) -mentre il re Filippo IV il Bello sopprimeva l’Ordine dei Templari incamerandone i beni e mandandone a morte i principali rappresentanti-. Per settanta anni circa i papi risiedettero in Francia, riuscendo solo con grande difficoltà ad arginare il potere dei sovrani di quella nazione. Solo la debolezza del re Carlo VI il Folle permise il ritorno a Roma di papa Urbano V, anche se l’antico conflitto con la Francia portò al Grande Scisma d’Occidente, che vide la Chiesa governata (o dilaniata) prima da due e poi da tre papi regnanti contemporaneamente, fino al ricordato Concilio di Costanza, convocato dall’Imperatore Sigismondo III, che decise la deposizione dei papi allora regnanti se non avessero accettato di rinunciare spontaneamente al papato: cosa che fecero Gregorio XII nel 1415, e poi Giovanni XXIII (il terzo, Benedetto XIII, non rinunciò mai e morì papa).
Intanto erano nati i regni nazionali, e anche la Chiesa si veniva organizzando come uno Stato territoriale, con una modificazione del ruolo del Romano Pontefice che progressivamente si configurava come sovrano, come principe fra gli altri principi; così fu per tutto il ‘Quattrocento, con i papi rinascimentali che gareggiavano con gli altri sovrani per lo splendore delle corti e le lotte politiche. Poi arrivò Martino Lutero con la sua Riforma, e i papi si trovarono di nuovo ad assumere una leadership del mondo cattolico contrapposto al variegato mondo protestante. Le questioni di natura dottrinale si mescolavano o dovevano sottostare alle contese politiche e territoriali (per tutti valga l’esempio dell’Inghilterra, dove il re Enrico VIII proclamò la propria autonomia di giurisdizione sulla “sua” Chiesa nazionale, proclamandosene capo); ma la Chiesa Romana si trovò comunque sospinta in una nuova poderosa riforma, per dare soddisfazione alla domanda di correzione morale presente nella realtà e stimolata dalle istanze luterane e calviniste, senza intaccare il patrimonio culturale, teologico ed ecclesiologico della sua tradizione.
Il Concilio di Trento costituì la sua monumentale risposta alla Riforma Protestante, attraverso l’attribuzione del carattere dogmatico alle dottrine fino allora tramandate dalla consuetudine e dalla Tradizione della Chiesa. Alla Compagnia di Gesù, fondata in quegli anni, fu affidato il delicato ruolo di ridefinire l’ordinamento degli Studi e in sostanza la Cultura Cattolica, ed essa assunse il compito dell’insegnamento della rinnovata dottrina alle classi dirigenti del mondo cattolico. Nel complesso momento di questo passaggio culturale, la cultura scientifica proponeva nuove osservazioni, nuove teorie, nuove concezioni che –al di là di ogni intenzione polemica- costituivano il superamento di non poche “verità di fede” stabilite anche dal Concilio di Trento (che aveva ribadito la necessità di fondare sulla Bibbia ogni conclusione di carattere scientifico).
I casi di Galileo e di Giordano Bruno furono laceranti. Ma la Chiesa aveva spostato l’enfasi della propria presenza sul piano del governo degli equilibri politici, proponendosi appunto come leader accanto, e non sopra, gli altri governi cattolici, i quali ammantavano con l’obbedienza e la fedeltà a Roma la loro politica interna e quella estera. In Europa andava intanto diffondendosi quella che sarebbe stata chiamata la cultura illuminista, con il suo pronunciato carattere razionalista e laico; mentre in ambito tecnologico andavano realizzandosi alcune scoperte che avrebbero nel giro di qualche decennio rivoluzionato l’economia e la sociologia occidentale. La Rivoluzione Francese cancellò poi assetti sociali e politici millenari, e innescò processi a lunga scadenza non più arrestabili. Anche le cosiddette scienze umane s’innovavano sotto la spinta illuminista, e la critica storica insieme a una sconvolgente scienza biblica costringevano la cultura ecclesiastica a sfide sconosciute.
Infine, in Italia, il Risorgimento nazionale poneva due importanti questioni: l’incameramento dei territori appartenenti alla Santa Sede; la rappresentanza dei cattolici nella nuova realtà nazionale che andava creandosi.
In questo clima, e significativamente poco più di un mese prima della Breccia di Porta Pia, il papa Pio IX convocava il Concilio Vaticano I, che definiva –come si è detto- il ruolo di Capo della Chiesa (e sommo tutore e rappresentante del mondo cattolico italiano) del Sommo Pontefice, e un nuovo paradigma di verità infallibile –il Papa quando proclama la verità di fede e di morale ex cathedra- incontrovertibile in quanto mai espressosi prima e quindi non suscettibile di attacchi come erano alcune conclusioni del Concilio di Trento. Il nuovo ruolo del Papa definito dal Vaticano I gli conferiva un carattere che non tardò ad assumere una dimensione anche personale, da Pio IX a Leone XIII –il papa della dottrina sociale-, a Pio X, presto proclamato santo –che stigmatizzò il “Modernismo”; a Benedetto XV e al suo impegno contro la guerra (la Prima Guerra Mondiale); fino a Pio XI che concluse la Questione Romana (Concordato con lo Stato italiano) e dovette assistere alla furia nazifascista; e a Pio XII, che vide il disastro della Seconda Guerra Mondiale e impegnò il suo magistero nella ricostruzione che a essa sopravvenne. I pontefici che seguirono al Concilio Vaticano I, nelle loro personali diversità, ebbero comunque un forte carattere carismatico, e si posero come punto di riferimento per il mondo cattolico soprattutto italiano. Al punto che nel 1958 l’elezione di Giovanni XXIII (papa Roncalli, che assunse significativamente lo stesso nome che era stato di un papa dimessosi al Concilio di Costanza) fu accolta immediatamente con un senso quasi di delusione, per la mancanza di un “phisique du role” e un colloquio familiare. E invece con Giovanni XXIII cominciava una nuova rivoluzione nella Chiesa: con la convocazione del Concilio Vaticano II il Capo infallibile della Chiesa restituiva ai vescovi il magistero –tra non pochi risentimenti degli ambienti della Curia Romana, che consideravano la questione del magistero chiusa definitivamente con il Vaticano I-, ed esercitò l’Ufficio di Pietro con un’autorevolezza che sembrava procedere dalla sua sensibilità più che dall’infallibilità del Magistero.
Il suo successore, Paolo VI, proseguì in modo ancor più deciso a “liberare” la Chiesa dalle “rughe del tempo” (discorso inaugurale del Vaticano II pronunciato da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962), con un forte ridimensionamento della presenza della Curia Romana. Di Giovanni Paolo I resta quasi solo il nome scelto, che si riconduceva ai due predecessori e nei pochi atti del suo brevissimo pontificato lo poneva nel solco del loro cammino di rinnovamento.
Poi Karol Woityla. Dopo la complessità degli ultimi tre pontefici, la Chiesa, e soprattutto la Chiesa italiana ritrovava il Condottiero, il combattente, giovane, dinamico, deciso, resistente: figura di riferimento che sembrava dare lui stesso sostanza al Primato e all’Infallibilità del Romano Pontefice. Un pontificato lungo, circondato dall’entusiasmo delle folle, dei giovani, seguito sapientemente dai mezzi di comunicazione, attento alle devozioni popolari, capacissimo di rispondere alla domanda di guida e all’offerta di obbedienza. Non è qui possibile entrare nel merito del suo lunghissimo pontificato: basti rammentare la sua drammatica conclusione e la commozione straordinaria delle sue esequie.
Dopo la parentesi “spettacolare” di Giovanni Paolo II, Joseph Ratzinger riprende il cammino di modernizzazione della Chiesa inaugurato da Giovanni XXIII e portato avanti da Paolo VI. Egli si è trovato di fronte tutti i grandi problemi che la prorompente energia del predecessore aveva in qualche modo offuscato: la secolarizzazione della realtà, l’estinguersi delle vocazioni sacerdotali, il crollo della tensione morale, la crescita a dismisura della povertà di masse imponenti della popolazione mondiale; e poi la crisi economica, la crisi delle istituzioni ecclesiastiche, le rivalità interne alla Curia Romana, fino agli scandali nella Chiesa.
La grande esperienza di vita nella Chiesa e l’imponente sua cultura teologica, che lo hanno fatto sentire meno comunicativo e forse meno vicino, gli hanno però fatto prendere coscienza delle difficoltà, e –credo- anche della necessità di intraprendere strategie di lungo periodo: i problemi presenti della Chiesa non si possono risolvere con gli effetti speciali di una simpatia personale che peraltro non possiede e che forse neppure ha mai ricercato, e che avrebbe tuttalpiù potuto dilazionarne di qualche anno l’impatto duro con la realtà della Chiesa e del mondo.
La sua scelta modernissima ed esemplare è stata allora quella di passare la mano, ridimensionando il ruolo regale del Papa a quello di “ufficio, ministerium, servizio”, nel quale l’uomo Razinger, divenuto “servus servorum Dei”, servo dei servi di Dio, si ritira a servire il suo Dio nel modo che le sue forze gli consentono, lasciando a chi forse avrà più tempo davanti e più energie per servire la Chiesa dalla Sede del primo papa pescatore.
Luigi Totaro