“Il giorno dei funerali di Fabiana Luzzi, uccisa a sedici anni a Corigliano Calabro, l’Aula della Camera ha dato il via libera unanime alla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa su "prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica", siglata a Istanbul l'11 maggio 2011. I sì sono stati 545 [su 545 presenti]. La proclamazione del risultato è stata fatta dal presidente Laura Boldrini. Il ddl di ratifica passa ora al Senato per l'approvazione definitiva. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza” (“Repubblica”, 29 maggio). Una buona notizia dalle Istituzioni, una buona notizia per tutti in un giorno ancora una volta tragico per tutti.
Nella commozione per Fabiana Luzzi –nel dolore di sua madre e di suo padre, dei suoi cari e degli amici- come è giusto ci si interroga sul contesto nel quale è nata quella tragedia, e ci si domanda se nella vita del giovane omicida vi sia qualche concausa che possa far luce su ciò che ha messo in moto un’azione così efferata. Lascerei alla Magistratura di indagare sugli aspetti soggettivi dell’evento, per proporre una riflessione di carattere più generale, partendo però da un aspetto particolarissimo. In questi giorni –come in tanti, tantissimi altri casi, per solito tragici- nelle cronache giornalistiche è ricorsa una parola che semplifica la comunicazione ma tradisce un atteggiamento mentale che rischia di divenire una complicità sia pure involontaria: “fidanzatino”. Davide, il giovane omicida, era il “fidanzatino”. Perché ricorrere a questo termine per indicare una relazione che a nessun adulto ragionevole sembra ordinata a durare più di qualche mese, come quasi sempre accade agli adolescenti? Perché anche i genitori (non parlo di quelli di Fabiana, che non conosco) si affrettano a qualificare in quel modo i compagni dei primi “giochi d’amore” dei loro figli, invece di accettare la realtà di rapporti che hanno un carattere essenzialmente riflessivo (cioè destinato al soggetto) più che transitivo (cioè rivolto all’altro, se non per la funzione di “specchio” che al momento riveste, come insegna il mito di Narciso)?
La parola “fidanzato”, per decenni scomparsa o quasi dal linguaggio comune, ricompare poi nella cronaca rosa per indicare l’“accompagnatore” di turno del “personaggio” di turno, con significato opposto a quello reale, che vuole indicare un impegno formale e pubblico in una relazione destinata a divenire stabile. Si usa il termine con una sorta di complicità quasi ammiccante, tradendo il concetto di “fidanza”, di fede (fedeltà) promessa e accolta, che ne costituisce il significato originario. E al tempo stesso si riafferma l’idea che non possa esistere relazione interpersonale se non entro un quadro di riferimento “famigliare”: l’allusione contenuta nella parola “fidanzato” in qualche modo “normalizza” il rapporto, lo stabilizza, lo depura da ogni vago senso di angosciosa provvisorietà, o di peccato –del quale si sarebbe tenuti a sentirci “in concorso esterno”-. Insomma, se sono “fidanzati”, due possono anche peccare –fatti loro-, ma non danno più scandalo –fatti nostri-. E con la copertina di questo mieloso moralismo si sollevano i soggetti da ogni responsabilità pubblica, che viene al tempo stesso affermata e subito “perdonata”, nel solco della normale cultura cattolica. A nessuno viene in mente che le relazioni interpersonali, qualora non intervengano reati, non hanno di per sé alcuna responsabilità pubblica, e nessun bisogno di assoluzioni. E non hanno alcuna necessità di stare dentro un quadro che riconduca all’idea di famiglia.
Nel caso, però, di soggetti molto giovani, il quadro famigliare rischia di “chiudere” due persone che sono nella fase esplosiva della loro crescita, obbligandole a vincoli anche solo empatici che le distraggono dall’esplorazione della loro capacità di rapporto con l’altro, offrendo mediazioni non necessarie e non sempre opportune –sia che trovino espressione nel consenso sia che la trovino nel dissenso-, e in ogni caso facendo intervenire elementi di ritualità suscettibili di trasformarsi in gabbie comportamentali. La complicazione avviene quando la dimensione famigliare si coniuga, come è naturale che avvenga, con la dimensione sociale, che ha anch’essa ritualità proprie, di solito ugualmente vincolanti. Se è vero che nella nostra società familistica non ci si sposa fra due persone, ma si “sposano” anche le rispettive famiglie e gli annessi amicali; se è vero che, nel caso che ci interessa –degli adolescenti-, il “fidanzamento” assume il carattere di uno status sociale; non c’è poi da stupirsi se in taluni sventurati casi lo status assunto si porta dietro anche le ritualità più perniciose, come il senso del “possesso” personale dell’altro, come l’esplosione patologica della gelosia.
Il possesso è di per sé istintivo, ma controllabile e sublimabile in un rapporto con l’altro che raggiunge (più o meno faticosamente) un equilibrio; così come la gelosia è un sentire primario, che può essere controllato e neutralizzato con il compiersi della maturità personale e l’affermarsi dell’autostima: tutti processi già di per sé laboriosi, non semplici. Ma se si caricano della necessità di renderne conto in pubblico –nel pubblico che è la famiglia o la “compagnia”-, se nella dimensione pubblica si vede (o si crede di vedere) messa in pericolo l’immagine di sé che si è costruita –come si diceva una volta, il proprio “onore”-, allora le reazioni non riescono più a essere intime e –per quanto dolorose- ordinate alla maturazione personale; ma esplodono in ritualità che appartengono al contesto adulto, dove i caratteri personali sono definiti, e sempre di più lo sono anche i comportamenti (come è testimoniato dalla quotidiana pratica delle percosse, degli sfregi, delle violenze, delle torture nei confronti delle donne).
Allora quella che si è forse ritenuta una “protezione” –della famiglia- non serve a nulla; e la violenza che si respira nella società diventa violenza privata.
Lasciamo che i nostri figli adolescenti crescano liberi di scegliere e liberi da noi e dalle nostre paure –stando a quella distanza che faccia loro capire che ci siamo sempre, ma “per” loro, non “con” loro-. Lasciamo che gestiscano i loro rapporti secondo la loro maturità e i loro desideri (tutti, oltre ogni paura), senza sentirsi in dovere di renderne conto e senza le gabbie di “fidanzamentini” e coinvolgimenti famigliari. Non chiediamogli di scimmiottare la società adulta. Semmai suggeriamo loro di cambiarla.
Luigi Totaro
Nella Foto: "Prima che sia tardi" un'istallazione contro la violenza maschile sulle donne, a cura delle Donne Antiviolenza di Perugia, ispirata liberamente all'istallazione " Zapatos Rojos" dell'artista messicana Elina Chauvet.