Ho letto e riletto l’intervento del professor Paolo di Bologna, come gli altri su questo giornale, e devo dire che sono sostanzialmente d’accordo con lui: coglie un aspetto rilevantissimo del problema, come ciascuno degli altri. Prima di entrare nel merito, però, voglio esprimere il mio compiacimento per il ritrovato ruolo “dirigente” degli insegnanti della nostra scuola, che vogliono parlare della loro attività e del loro impegno, e confrontarsi anche manifestando un pluralismo di idee e principi che è la vera ricchezza a disposizione di tutti. Scrivevo qualche anno fa su questo giornale: “Cambiare prospettive. Per prima la scuola deve cambiare prospettiva: al presente il mondo della scuola sembra essersi ritirato sotto la tenda, come Achille: il ceto intellettuale della nostra società, ricco della presenza di molti insegnanti d’ogni ordine e grado, se ne sta in silenzio, quasi schivo, eludendo ogni protagonismo. Abbiamo già detto delle condizioni a dir poco non ottimali del lavoro di molti insegnanti, e più in generale potremmo aggiungere che di per sé il lavoro dell’insegnante è notevolmente faticoso –e certo non aiutato dalle favole circolanti sulle mitiche lunghe vacanze che non esistono–, a fronte di retribuzioni indegne. Ma non credo sia possibile sottrarsi al ruolo insostituibile che le élite intellettuali hanno e devono esprimere nella società: la capacità critica che deriva dallo studio e dall’insegnamento; l’esperienza quotidiana dello stato di salute della società di riferimento; il contatto dinamico con i prossimi adulti, il concorso obbligato alla loro formazione e alla prefigurazione del loro futuro; tutto ciò non può non esprimersi in un progetto generale di società locale al quale ogni insegnante deve partecipare. Ma non singolarmente, disperdendo preziose energie in mille rivoli, e scontando delusioni e frustrazioni che nessuno da solo è in grado di superare. La scuola nel suo insieme deve trovare la sua dimensione protagonista nella società: gli insegnanti devono trovare strumenti e tempi per esprimere tutti insieme una sorta di POF territoriale, scaturente dall’analisi degli sviluppi possibili della società locale raffrontati con quanto avviene a livello provinciale, regionale, nazionale, europeo. Costituire gruppi di studio, di elaborazione metodologica e di sperimentazione, nuclei di valutazione. E per tutto questo chiedere fortemente riconoscimenti di status ed economici.
Si tratta di immaginare un impegno di lavoro ancora maggiore, è chiaro; e ci sarà da intraprendere una serrata dialettica con i genitori e la società adulta in generale. Ma in realtà come la nostra, come quelle isolane, è ancora possibile: ed è una chance da giocarsi. Anche in questo la scuola diviene laboratorio: educare al cambiamento, al rinnovamento continuo, alla progettazione la società che è per sua natura statica e conservatrice, quasi sempre distratta dalla comprensione di quanto accade dietro le apparenze di una continuità scambiata per sicurezza, salvo poi restare attonita di fronte a fenomeni sociali imprevisti e incontrastabili –il gap generazionale, di cui si parla spesso e si capisce poco–, capaci di sconvolgere adulti convinti di aver fatto tutto quello che potevano e dovevano”. Ecco, mi pare che Achille abbia lasciato la tenda e sia pronto per la battaglia. Non può che derivarne un gran bene.
Venendo al merito degli interventi, trovo che –lungi da essere in contrapposizione- siano invece complementari: per questo non direi che alcune delle posizioni espresse nei giorni scorsi costituiscano “tutta una serie di luoghi comuni, banalità, trite e ritrite, che hanno portato la scuola al collasso e così facendo, non potrà che peggiorare”; direi piuttosto che considerano aspetti rilevanti della realtà e propongono problematiche più ampie che stanno accanto al sacrosanto principio che afferma “l'apprendimento è un contratto bilaterale e la responsabilità è condivisa!”. Sono convinto che l’equiparazione dei ruoli fra adulti e ragazzi –a scuola come nella famiglia, con la postulazione di un rapporto amicale impossibile, cui affidare l’insano connubio fra l’ansia giovanilistica degli adulti e la voglia di accelerare la propria emancipazione dei giovani- abbia fatto danni gravissimi e umiliato la funzione educativa che invece deve distinguersi dalla necessità d’essere educati. “Con le classi prime?” –dice il collega Paolo- “E’ una guerra tutti gli anni! Anzi posso dire che spesso gli allievi sono talmente arroganti, perché talmente abituati da sempre ad avere il potere, che addirittura, interferiscono sulla didattica! La didattica più efficace non è praticamente MAI quella più gradita, anzi! E allora? Siamo alle solite <…> ti devi imporre! Ma cosa stiamo dicendo? Ma di cosa stiamo parlando? Non possono essere gli allievi a decidere, specie se molto giovani, perché non hanno gli strumenti <…>. Il puerocentrismo deve finire! È la peggiore malattia che ha afflitto l’educazione prima e la scuola poi <…>. Siamo passati da trattare i fanciulli come bestie prive di qualsiasi diritto, da punirli in ginocchio sui ceci, a farne dei piccoli imperatori a cui tutto è dovuto e tutto è scontato!”. Duro ma efficace. E’ un aspetto fondamentale di un problema che però, e anche Paolo in fondo lo dice, va al di là della questione delle bocciature: malgrado infatti ricordi che “il docente non è né psicologo, né assistente sociale, né mediatore culturale, ma è un'insegnante di una disciplina al quale ormai vengono affidate tutte queste responsabilità, non di sua competenza” –io direi “non di sua stretta competenza”- soggiunge poi che di quelle responsabilità “dovrebbe essere la società a farsene carico!”. Eccoci al punto. Ed eccoci al dott. Coscarella, il quale appunto introduce il dibattito partendo dalla prospettiva della società, che è certamente quella giusta. Perché la scuola è funzione (servizio) della società, come la sanità o la polizia, ovviamente con le debite distinzioni. Nella dimensione frontale, deve vigere il contratto bilaterale con gli alunni di cui parla Paolo; e un altro contratto altrettanto chiaro che riguarda le famiglie. Dice ancora Paolo: “E' ormai cosa frequente, per un insegnante essere oggetto di violenza! Mi chiedo spesso cosa siamo ormai diventati? Veniamo vessati, mal giudicati, siamo oggetti di episodi di bullismo! E nonostante tutto dovremmo anche far finta di niente e dar la promozione immeritata a tutti, chiaro! Ci sono delle classi, parlo almeno per alcuni istituti di media superiore, in cui non si riesce a far lezione! Studiare è ancora un privilegio, in molti paesi, ci sono viceversa realtà in cui tu devi lottare per cercare di insegnare qualcosa! Per questo, alle persone che continuano a sferrare offensive alla cieca contro la scuola, a coloro che continuano a prendere incondizionatamente le difese dei figli a discapito degli insegnanti, tengo a ricordare che già dalle scuole medie i ragazzi e le ragazze si apprestano a diventare degli uomini e delle donne, eh già perché la biologia parla chiaro, nel momento in cui siamo dotati di attributi per procreare saremmo già in grado, potenzialmente, di prenderci la responsabilità di un essere umano!”. La partecipazione delle famiglie all’attività della scuola non può in nessun caso invadere la funzione docente, se non per segnalare agli organi preposti eventuali irregolarità formali commesse da docenti o altro personale scolastico, perché quegli organi compiano autonome indagini e prendano eventuali provvedimenti. Ma questa non può divenire ‘routine’: può verificarsi in casi eccezionali, ma non certo per una diversa valutazione di natura didattica per la quale le famiglie non hanno competenze né formali né di merito.
Ma nella dimensione sociale quale risposta deve dare la scuola allo Stato e alla comunità? I numeri del dott. Coscarella sono chiari e parlanti. E lo sono anche le osservazioni sul lavoro che la scuola –senza diventare ditta di assistenza alle caldaie, come dice Paolo- deve pur svolgere per conto di noi tutti. Non a caso da oltre cento anni sono nate discipline scientifiche che si occupano della conoscenza, dell’educazione, della sociologia, della psicologia dell’età evolutiva, della psicologia sociale, della metodologia didattica, della docimologia, delle neuroscienze. E sarebbe grave che un insegnante ritenesse di poter rinunciare al contributo fondamentale di questi sussidi al proprio lavoro. Perché, e non sfugge certo ai colleghi, nella scuola si ritrovano le contraddizioni e le angosce della realtà sociale: si “ritrovano”, si badi bene, non si “formano”. I ragazzi “che non hanno voglia di studiare” sono gli stessi che ciondolano nelle nostre piazzette senza far niente, che bruciano il loro tempo e talvolta il loro cervello senza interessi e senza gioia, persi dietro miti effimeri e obiettivi monotoni, come nella pubblicità del Superenalotto: “purché siano milioni” (ma poi i milioni non li fa nessuno, e resta solo la frustrazione). Sono i giovani che non fanno progetti e che scelgono la via semplice del tirare a campare, come a scuola. “Non hanno voglia”, caro Paolo, è forse un po’ sbrigativo: perché non hanno voglia di studiare, non hanno voglia di leggere, non hanno voglia di conoscere l’arte, la musica (tutta), la tecnologia (quella oltre le ‘playstation’), che non sanno comunicare e infatti non comunicano niente (twitter, facebook: mezzi di comunicazione, non immediatamente comunicazione). A quindici anni sono un peso per le famiglie, per la società, e per sé. E sono un costo economico spaventoso.
Per questo è criminale l’abbandono al quale i governi hanno condannato la scuola (a partire dalla signora Moratti, dott. Coscarella), riducendola a un servizio essenziale, come i poliambulatori nelle isole, adatti alla medicina d’urgenza. Ha ragione la professoressa Libotte: con sussidi diversi si potrebbe fare tanto di più: non solo per i ragazzi, ma per la nostra comunità. Ma oltre le colpe dei governi centrali, e venendo alla nostra realtà, il silenzio più assordante è quello delle Amministrazioni locali. Certo, mancanza di fondi anche per loro. Ma la richiesta di una normativa speciale per le scuole delle isole, per la quale l’amico Luciano Giorni si è speso con impegno eroico, perché non ha mai trovato sostegno se non formale? E l’idea più volte lanciata di utilizzare le imponenti infrastrutture turistiche per garantire agli insegnanti la possibilità di abitare sull’Isola durante l’anno, fino all’inizio della ‘stagione’, a prezzi ‘politici’ se non gratuitamente; perché non se ne è mai fatto di nulla. Della marginalizzazione di coloro che abbandonano la scuola, della marginalità in atto di coloro che –in numeri ormai allucinanti- consumano droghe fra i giovani nostri concittadini, perché di tutto questo non si parla?
Certo: “Il vero problema non sono le bocciature”, dice la professoressa Lupi, “la scuola non può essere la panacea di tutti i mali. Soprattutto non lo può essere la nostra scuola, quella in cui non ci sono i tempi e gli spazi necessari, quella delle classi pollaio, quella dove l'insegnante, privato di un benché minimo prestigio e riconoscimento, è lasciato solo ad inventarsi metodi e strategie, quella in cui entri in classe e non sai chi ti trovi davanti, perché nessuno te lo dice. I problemi familiari e sociali non possono essere risolti dalla scuola, che ha sicuramente un suo peso ed un suo ruolo, ma che non può essere individuata certo come la responsabile unica di tutto quel che non va”. Tutto verissimo. Ma le bocciature non sono neppure la soluzione (se non quando la libera e responsabile valutazione degli insegnanti non ne individui la necessità funzionale), perché le bocciature e i passaggi alla classe successiva non sono la scuola.
La scuola merita un grande e approfondito dibattito, e questo mi pare il contributo iniziale del dott. Coscarella, raccolto da tanti colleghi che si sono riappropriati pubblicamente della loro funzione di intellettuali. Lasciatemi ripetere: “Non credo sia possibile sottrarsi al ruolo insostituibile che le élite intellettuali hanno e devono esprimere nella società: la capacità critica che deriva dallo studio e dall’insegnamento; l’esperienza quotidiana dello stato di salute della società di riferimento; il contatto dinamico con i prossimi adulti, il concorso obbligato alla loro formazione e alla prefigurazione del loro futuro; tutto ciò non può non esprimersi in un progetto generale di società locale al quale ogni insegnante deve partecipare”. Si può fare.
Luigi Totaro
Università di Firenze