Caro Sergio,
“ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare. E a culo tutto il resto”, dice Guccini concludendo la canzone da te citata. Basterebbe quella motivazione per continuare, ma si sa bene che non è la sola, né per Guccini né per te. Lo spieghi, infatti, con poche e sentite parole; e parli dell’Elba e degli elbani, per parlare molto, molto più in generale e più in grande: hai la tua “chitarra” per cantare e, grazie “al favor de tu dios”, anche “altri nove fratelli comunisti” e forse più. Quanto basta per guardare con lucidità e continuare a sperare.
Ci voleva il tuo “A sciambere” per scuotermi dal torpore pernicioso al quale la veglia funebre per la nostra Repubblica mi ha lentamente accompagnato, e spingermi a dire due cose che da tempo mi stanno in testa, per condividerle con te e i tuoi lettori.
Una lunga veglia funebre, come altre volte –e in circostanze ben più tragiche-, quando un regime morto ha tentato di sopravvivere a se stesso affondando nel patetico (ma non risparmiando morti e lutti): era accaduto –per rimanere alla storia recente- nel 1943 con il Fascismo di Salò, con i suoi proclami inermi –anche letteralmente-, con i suoi personaggi ormai vaghe ombre di quel che avevano inteso rappresentare nei giorni del potere. Era accaduto una trentina d’anni dopo con la lunga agonia di Francisco Franco al termine della interminabile dittatura nella quale aveva stretto la Spagna dal 1939, dopo la dura repressione della Guerra civile che aveva visto al suo fianco Hitler e Mussolini. La nuova Italia repubblicana che sorgeva nel 1945-46, come la nuova Spagna del 1975 con il suo allora giovane re che riuscì a lasciar svolgere una transizione incruenta, segnarono comunque la fine di drammatiche emergenze, anche se restavano sconfinate macerie materiali e sociali.
La veglia funebre dei nostri giorni, dopo il ventennio berlusconiano, ci vede ancora spettatori di un’agonia disperatamente disconosciuta da molti che si sentono eredi di un padre che li ha allevati a lungo e anche fatti prosperare, ma che non lascia loro nulla in eredità; e quasi paventata da coloro che tanto a lungo sono stati all’opposizione da non sembrar capaci di fare altro. Non ci sono stati morti e feriti nel ventennio ora trascorso, e neppure violenza o repressione clamorose: ma le macerie di oggi sono ugualmente drammatiche perché hanno atterrato la nostra società con il torpore del giudizio e dei desideri, del discernimento e della volontà.
Fabbriche chiuse e povertà diffusa, e insieme indifferenza, rassegnazione e paura.
Ma credo che questa realtà, nei termini in cui l’ho schematicamente tratteggiata a livello nazionale come tu la tratteggiavi per la nostra Elba, non sia né solo elbana né solo italiana. La crisi, di cui si parla tanto e di cui Elba e Italia costituiscono l’esempio vicino –e di cui governanti locali o centrali portano comunque il peso della connivenza-, riguarda quantomeno tutto il cosiddetto Occidente e il modello economico che lo ha governato negli ultimi due secoli: riguarda l’illusione del capitalismo di produrre benessere diffuso sia pure per emanazione progressiva della ricchezza dei protagonisti economici, attraverso il meccanismo dell’economia di mercato che avrebbe dovuto costituire il lo strumento di garanzia dell’equilibrata ripartizione della ricchezza e del miglioramento generale delle condizioni di vita. Il capitalismo si è suicidato; e se ancora non è morto e trascina la sua lunga agonia –ormai “ha i secoli contati”, dice Giorgio Ruffolo- ha bisogno, come ha avuto bisogno almeno negli ultimi cento anni, di dosi sempre più massicce di cure palliative, di “stupefacenti” (in tutti i sensi), perché è immodificabile e inguaribile. E contagioso: ne fa fede l’esperienza dell’Unione Sovietica, tentativo di un’economia e di una cultura antagonista, che avendo sballato in entrambi i settori è morta affogando nel delirio capitalista: di cui oggi sono esempio macroscopico i nuovi oligarchi delle ville, degli yacht e delle squadre di calcio comprate a peso con le immense risorse sottratte ai concittadini dei quali dovevano amministrare futuro e speranze durante il passato regime.
Cosa succederà ora? Ecco che diviene indispensabile allargare lo sguardo dall’Elba all’Italia, all’Europa, al mondo intero, perché ancora una volta il futuro non passi sopra la nostra testa “a nostra insaputa”. Il vero dramma, a mio modo di vedere, non è solo il desolante panorama dei nostri contemporanei che gestiscono –per quanto possono e come possono- il potere nelle sue varie forme e articolazioni: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,21). Ma ancora non si odono voci che trovino parole nuove, non si manifestano intendimenti e progetti che affrontino la “tabula rasa” che ci si para davanti agli occhi, e che deve pur essere scritta da capo.
Sarebbe importante e gratificante poter dire, poter immaginare: ma temo che il nostro tempo (intendo quella della mia generazione) sia scaduto. Passiamo la mano. Nel frattempo continuiamo ad “andare avanti e a non svestirci del panni che siam soliti portare”, come ci dice il Poeta. L’unico punto fermo che la riflessione ci propone è che se ne esce solo con un nuovo patto sociale: se si diventa più uguali, se si redistribuisce la ricchezza materiale, la ricchezza culturale, la ricchezza etica dei sogni e dei desideri. Molti di noi hanno chiamato tutto questo “socialismo”: continuiamo pure a raccontarlo così, fino a quando non ci sarà un nome nuovo o un nuovo progetto capace di coinvolgere tutti in una rinnovata battaglia. Per ora “abbiamo tante cose da raccontare per chi vuole ascoltare…”.
Luigi Totaro