1) Stare dall’altra parte
Alle 18, 10 alla Sala della Gran Guardia concessa dal comune al Libraio di Portoferraio aleggia un po’ di preoccupazione, anche se nessuno lo dice: tutto questo lavoro per una decina di persone? Ma ci vuole per forza il personaggio noto per far venire qualcuno in più che non siano i soliti noti girovaghi che non si perdono un evento culturale? Poi, poco alla volta, mentre l’incontro di presentazione di “Una vita non basta” sta per cominciare, i vasti buchi si colmano e la sala si riempie.
La prima mia impressione è che trovo ancora un po’ strano essere … dall’altra parte, di chi è intervistato come autore e non dalla parte di chi fa le domande. Per anni ho presentato libri e autori, anche a grandi pubblici, come quello del festivaletteratura di Mantova, oggi sono io in quella sedia al centro del tavolo ed è il mio libro bene in vista sui banchi di vendita.
2) Un ponte tra generazioni
Federico Regini e Giorgio Barsotti, chiamati a presentarmi, sono di due esperienze di vita e generazioni diverse, lontane tra loro qualche decennio: bancario appassionato di scrittura e lettura, giovanilista se non proprio giovane il primo (quando mai si sarebbe detto “giovane” di un ultraquarantenne, pochi anni fa?), maturo insegnante e intellettuale riconosciuto, ancora a caccia di nuove lauree il secondo, che ha superato i settanta. (Io sto nel mezzo anche per età, ma molto più vicino al Barsotti che al Regini.) Eppure la loro lettura del mio romanzo in molti punti converge, specie nell’apprezzamento della tessitura del testo e della capacità di far convergere molte storie in un racconto in cui tutto si tiene, una vita umana e una animale, minatori e calcio, mare e una storia d’amore, con una Greta particolarmente apprezzata da Barsotti per quello stare tra realtà e sogno.
3) Il tessuto narrativo
“Come fanno a collegarsi così bene storie e temi così lontani?” è una domanda chiave di Barsotti. In realtà continuo a pensare che sia avvenuto, intorno a questo testo, quasi un miracolo, una serie di coincidenze fortunate, quelle per cui, ad esempio, un polpo pescato all’Elba, dalle parti di una miniera italiana, finisce in un acquario proprio sopra una miniera e per colmo di coincidenze il centravanti campione mondiale abbia il soprannome di “el minero del gol” perché si è sottratto, grazie al calcio, alla miniera. E allora la miniera, i minatori, le loro storie di lotte e di solidarietà diventano da sé, senza alcuno sforzo, un filo rosso del romanzo (non l’unico). Che nel lontano ’70 io abbia scelto per la tesi di laurea lo sciopero generale del 1904, che partì dall’uccisione di un minatore in Sardegna, è solo una coincidenza in più, a cui ho pensato solo mesi dopo aver cominciato a scrivere.
In fondo la scrittura (che in questo è parente stretta delle forme meditative, cristiane, sufi, buddhiste o zen che siano) è unificazione delle realtà frammentate. E probabilmente aver realizzato per tanti anni servizi televisivi mi ha allenato e abituato a tessere e ricucire brani diversi, diverse voci, a trovare un ritmo narrativo efficace: in fondo è questo il lavoro di montaggio, e vale anche per la scrittura.
4) Elbano per vocazione
Federico mi chiede come abbia fatto a penetrare i caratteri dell’isola e ad amarla in questo modo, io che non ero mai stato all’Elba fino a tre anni fa. E’ semplice: l’isola mi ha conquistato subito, in modo magnetico, ma la maggior parte degli elbani, da dentro, vedono soprattutto ciò che li divide, i pietrosi dai ferrosi, i riesi dai capoliveresi, e così via, perché ciascuno, in una comunità come in famiglia, cerca una propria identità, e si definisce quasi sempre attraverso ciò che lo divide dall’altro, non per i tratti che ci uniscono e collegano. E’ un po’ una forma di autodifesa, più che di conoscenza. Perché per chi scende in profondo a conoscersi la vera unità la trova nei caratteri naturali che ci fanno umani e parte della natura tutta.
Cito allora, a esempio, il simbolo del Tao, così come me l’ha raccontato Tiziano Terzani: nella metà bianca c’è un punto nero e nella metà nera c’è un punto bianco. Se riuscissimo a vedere in noi stessi quella parte dell’altro (la parte di bianco o di nero) che ci rispecchia e ci appartiene, ma che tendiamo a rifiutare, potremmo meglio vedere l’unità, dentro di noi e negli altri e spendere meno in psicanalisi e medicine.
Chi viene da fuori e scopre questa meraviglia della natura che si chiama Elba, vede come ogni parte e ogni carattere dell’isola sia complementare e necessaria all’altra, come l’isola sia uno splendido e irripetibile mosaico. E se scava un po’ di più, come ho fatto io per poter ambientare sull’isola il romanzo, può trovare uno scrigno di storie che gli elbani ignorano o hanno rimosso: la miniera ricorda la povertà? Allora meglio dimenticarla, lei e le sue storie, come se non appartenessero più a loro. Ma così, perdendo la memoria, si perdono le radici e il senso delle cose.
5) Le molte voci e l’empatia dolorosa
La pluralità di voci e la commistione di realtà e fantasia di cui è fatto il romanzo colpiscono i due relatori e i lettori. “Come hai fatto – mi chiedono – a parlare come un ragazzo e come una donna, come un nonno e persino come un polpo?” Per allenamento e abitudine ad abitare gli altri – rispondo – a lasciarmi pervadere dalle scritture e dalle storie altrui, perché se vuoi intervistare bene un autore devi in qualche modo “entrare” nei suoi personaggi e in lui stesso, o in lei. Solo così li comprendi e solo così puoi dialogare in modo aperto senza costringerli in difesa (ma in fondo non è così anche nella vita, a partire dal nucleo familiare?)
Torno con la mente, e lo racconto, a sette anni fa, a quando in due settimane di fila lessi e intervistai Amos Oz e Alda Merini: il primo aveva elaborato nella sua autobiografia, dopo cinquant’anni, il suicidio della madre, la seconda aveva estratto la sua poesia da anni di sofferenze, incomprensione e manicomio (e l’aveva intinta e colorata di quelle esperienze). “Un lettore normale – spiego – quando arriva a un punto particolarmente doloroso e toccante, si ferma, posa il libro e si dà tutto il tempo necessario per metabolizzare. Se invece devi intervistare l’autore e hai un appuntamento già fissato, questo tempo non ce l’hai, devi immergerti a capofitto, tra le pagine, nell’altrui esperienza per comprenderla, sintonizzarti e fare le domande giuste.” Tranne, con Oz e Merini, appunto, star male dentro, dopo, se hai divorato 400 pagine in tre giorni. E ti capita di star male persino quando la stessa esperienza la riporti a galla, come mi succede in questa serata.
6) Ottopensiero e autobiografia
Regini è colpito dalla qualità e dalla varietà delle storie, Barsotti dallo stile, sempre misurato, mai scontato. Da dove arrivi non so, non imito nessuno, mi lascio scrivere e tengo alla qualità e all’affinamento e forse le migliaia di libri di qualità letti nello scorso decennio, ai fini di far bene il mio lavoro, mi han fatto bene, e di mio, e della lezione del Guglielmino, che ho avuto come professore al liceo, ho particolare avversione alla scrittura sciatta o mal curata, a costo di fare sei stesure del testo, come ho fatto.
Gemma Messori, che usa animare i bambini ospiti del Libraio ogni giovedì, si mette nella parte di Fiorella (una delle protagoniste femminili del romanzo, e legge una sua lettera.
Barsotti mi fa un regalo simbolico, quando si riferisce al pensiero laterale e ne vede traccia nel romanzo. Regalo, perché di ottopensiero vorrei scrivere, da tempo perché è il pensiero tipico del polpo, ma non ne ho avuto ancora coraggio e tempo.
Quanto c’è – mi chiedono – di mio, di vita vissuta? Un po’, e mi sento, due giorni dopo l’anniversario, l’istinto e il dovere di ricordare piazza Fontana 1969, la bomba di Milano che mi arrivò alle orecchie da lontano, ma la sera non me la sentii di perdere i Beatles alla tv svizzera e il loro Magical mistery tour, spezzando il cuore in due. Ne ho scritto, in un interstizio del romanzo, pensavo di aver elaborato l’esperienza e il senso di colpa scrivendo, ma mentre racconto al pubblico attento tremo ancora visibilmente di emozione e di colpa, tanto che l‘ultima parte della serata, comprese le copie da firmare e la cena, le vivo quasi in trance.
7) A piedi di notte
Tutto mi passa davanti e scorre e si ricompone nella tessitura della serata e torna alla mente e alla voce uno squarcio di backstage del romanzo: quella volta in cui, sveglio alle quattro del mattino, in pieno inverno a Capoliveri, esco all’ora dei minatori e affronto dieci chilometri di cammino al buio, per respirare l’aria della notte, come chi lavorava “dalle stelle alle stelle”, per far mio un millesimo di quell’esprienza e poterlo raccontare un po’ più da vicino. “Meriterebbe – dico – che gli stessi elbani, nipoti e pronipoti, provassero a percorrere i passi notturni dei loro nonni e bisnonni, e forse sentirebbero più bella e radicata in loro l’isola e la memoria, la farebbero loro come il bianco e nero del Tao.” Così come provano a fare i forestieri come me, il libraio che mi ha sostenuto in questo giro elbano e i lettori attenti e acuti come quelli che mi hanno presentato, commentato e ascoltato.
Se “Una vita non basta” può servire (come sembra abbia cominciato in questo piccolo tour) a scavare, coltivare, riscoprire e regalare narrazioni e memoria, che il libro sia davvero il benvenuto all’Elba.