Debutta oggi la quarta rubrica tematica di Elbareport. Il successo riscosso da “Lo scoglio visto da lontano” di Cecilia Pacini, “Il Sabato del villaggio” di Francesca Campagna, “Il Pranzo della Domenica” di Valter Giuliani, ci ha convinto di aprire un’altra finestra settimanale su un fronte che consideriamo “strategico”, per la crescita civile della nostra comunità, come quello della scuola.
Abbiamo affidato “Fuori Tema”, che sarà pubblicato in linea di massima ogni giovedì, ad una coppia di eccellenti curatori come Elena Maestrini e Marco Marmeggi che – siamo certi – riusciranno a stimolare ulteriormente una discussione sull’universo educativo, a cui le pagine elettroniche del nostro giornale sono rimaste sempre aperte. Si parte.
La Redazione
Vorrei permettermi una volgarità, tanto per iniziare. Una cosa che si dice sovente a Roma, con l'efficacia linguistica oltreché immaginifica di quello splendido dialetto che è il romano, e che ci restituisce, almeno in parte, una verità che il nostro paese sembra aver dimenticato da tempo: stamo co' e pezze ar culo! Con tutte le nostre energie e speranze, grazie alla straordinaria narrazione che i venditori di sogni, Berlusconi prima, Renzi poi, hanno saputo e ci stanno imbandendo, non paghi di aver concesso ogni ladrocinio alle ricette austere delle politiche di rigore, alimentiamo ancora la nostra stessa menzogna, non vedendo ciò che ci sarebbe da vedere e non ascoltando quello che andrebbe sentito.
Per questo la prima riflessione con cui apriamo “Fuori tema”, la nostra rubrica sulla scuola elbana, ha l'obbligo civico, ancorché professionale, di riportare l'universo mondo coi piedi per terra. Ad oggi, mercoledì 26 marzo 2014, a distanza di sette mesi dall'inizio dell'anno scolastico ed a poco più di due dalla sua conclusione, le scuole non hanno ricevuto né conoscono ancora l'ammontare dei fondi statali utili, per riprendere la formula istituzionale, al miglioramento dell'offerta formativa. In altre e più comprensive parole i quattrini che servivano un tempo per mandare avanti la scuola, comprese le sue articolazioni organizzative basilari, sono finiti e le briciole di quello che rimane verrà accreditato, non si sa quando, sugli anoressici conti scolastici.
Inutile riprendere qui cose già dette e stradette: non possono essere pagati i corsi di recupero per gli alunni in difficoltà, non ci sono i fondi per i progetti integrativi dei percorsi curricolari, quelli per le funzioni strumentali, mancano quelli per l'organizzazione della scuola, per i collaboratori scolastici che devono aprire i portoni, per i coordinatori di classe, i responsabili di plesso. Non c'è niente da aggiungere rispetto ad una discesa nei profondi abissi del terzo mondo che la scuola italiana sta intraprendendo ormai da alcuni anni. Prima fra tutte le istituzioni statali, con grande lungimiranza della classe politica della destra berlusconiana, subì un mastodontico ridimensionamento già in periodo pre crisi. Un'idea geniale e sopraffina: tagliare scuola, università e ricerca in modo da cancellare ogni residuale strumento moderno per poterne uscire una volta che essa ci avesse travolti.
Così i fondi per il miglioramento dell'offerta formativa, quei soldi destinati a rendere la scuola qualcosa che potesse rispondere alle sollecitazioni ed ai cambiamenti globali, sono passati dai 269 milioni di euro del 2001 agli 87 del 2011, i docenti precari della scuola italiana, i più giovani ed i più qualificati, sono stati falcidiati da uno dei più grandi licenziamenti di massa della storia repubblicana - 130.000 persone licenziate tra il 2010 ed il 2012 -, il contratto del personale bloccato, l'età pensionabile schizzata a cifre incompatibili con la possibilità di stare in classe a fare i “bis-nonni”. Una scelta consapevole e criminale che ha ridotto il nostro paese tra gli ultimi in Europa in materia di istruzione.
Non illudiamoci. Ad oggi le cose sono solo peggiorate. Si è pensato intelligentemente di restituire parte degli scatti stipendiali dei docenti (bloccati da Tremonti nel 2010), prelevando i soldi da quegli 87 milioni di cui sopra, provocando una riduzione del fondo d'istituto, prima del 30, quest'anno del 50 per cento. Nei proverbi più cari alla politica delle leggi di stabilità si fa sempre riferimento alla famosa coperta corta. Bene di quel cencio non è rimasto che un piccolo brandello. E con le pezze non si affrontano inverni, tantomeno tempeste.
L'altro giorno, in classe, parlando in generale della crisi del '29, un mio alunno mi ha chiesto:
* Prof. Lei ha detto che le classi medio-basse si impoverirono e persero la loro ricchezza,
ma io non capisco una cosa, ma quei soldi che prima erano loro dove sono andati?
Credo di aver risposto in modo complicato e quasi incomprensibile, cercando di spiegare a lui e a me stesso il funzionamento della svalutazione e della borsa. In realtà la cosa è semplice. Nei periodi di crisi la richezza si sposta. Dai ceti medi e bassi a quelli più ricchi. Nel corso di questi anni è avvenuto proprio questo. La scuola è stata un serbatoio pubblico per prelevare risorse destinate ad altri. Togliere ai più per dare ai pochi.
I venditori di sogni stiano attenti. Prima o poi è dalla scuola che suonerà la sveglia!