Tra le riforme costituzionali e istituzionali in cantiere e prossime ad una conclusione alcune riservano più d’una deludente sorpresa. Sorpresa comunque annunciata perché da quando si è messo mano al nuovo Senato e soprattutto al nuovo titolo V è risultato subito chiaro che lo stato si apprestava e riprendersi una serie di competenze sottraendole alle regioni. La gestione ‘concorrente’ introdotta nel 2001 in effetti si era rivelata per molti versi fallimentare avendo contribuito solo ad accrescere il contenzioso non soltanto costituzionale. Le vicende degli ultimi anni di gran parte delle regioni speciali e ordinarie all’insegna anche di molti scandali hanno ampiamente concorso alla ‘rivincita’ dello stato che ha così cercato di scaricare per intero la responsabilità su altri.
Renzi del resto lo ha detto con estrema chiarezza; alle regioni vanno ridotte le competenze. Quello che nessuno però ha detto finora è perché il titolo V ha fallito. L’intento non sarà male ricordarlo era quello di riuscire dopo tanti fallimenti a rendere finalmente possibile quella ‘leale collaborazione’ istituzionale tra stato, regioni e autonomie che è condizione fondamentale per politiche nazionali e oggi anche europee capaci di un governo del territorio efficace. Prima del nuovo titolo V lo stato disponeva in proprio di tutte le competenze primarie senza che nessuno potesse -e non solo le regioni- ficcarci il naso. Eppure lo stato non era riuscito a fare quello che gli competeva senza il concorso delle regioni e delle autonomie. Con la decisione del 2001 si tentò perciò questa svolta che è fallita ma non perché fosse sbagliato lo scopo bensì non adeguata la strumentazione. E’ da qui perciò che si sarebbe dovuto e si dovrebbe ripartire e non per dire e ripetere che solo lo stato inteso come potere accentrato può fare quello che in tanti anni non è riuscito a fare perché se le regioni non hanno innegabilmente le carte in regola ci vuole faccia tosta per dire che lo stato invece è a posto e può riprendersi disinvoltamente il mazzo.
Anche perché nel frattempo rispetto agli assetti istituzionali del 2001 le cose sono cambiate e stanno cambiando e non in meglio e non solo per le regioni ma anche per le autonomie province in testa. La leale collaborazione riguardava e coinvolgeva infatti stato, regioni ma anche province e comuni. Oggi sotto questo profilo il quadro si è ulteriormente complicato vuoi per i comuni tenuti a stecchetto e non soltanto sul piano delle risorse ma soprattutto per le province ossia per quell’area vasta che in nuove politiche nazionali di governo del territorio dovrebbero assolvere ad una delicata e decisiva funzione.
Che si stia tornando proprio mentre si sta discutendo di una camera delle autonomie ad un accentramento vistoso risulta chiaro in tanti commenti e denunce e anche in documenti di autorevoli costituzionalisti (i famosi ‘professoroni’) tanto è vero che alcune ipotesi riguardanti le regioni –le macroregioni- sono state subito messe da parte e rinviate a tempi migliori così come nessuno ha pensato a ripescare una vecchia questione come quella delle regioni speciali delle cui competenze nessuno discute nonostante siano evidenti le complicazioni derivanti nei rapporto tra regioni speciali e ordinarie in realtà complesse come quella alpina ma non solo.
E siccome il governo ha un ministro preposto a questi problemi Graziano Delrio che ha da poco pubblicato un libro; ‘Cambiando l’Italia’ che affronta anche questi temi mi è sembrato giusto e opportuno vedere cosa ha in programma e come la pensa. Il ministro ricorda che ‘la riforma del 2001 e quella antecedente, che riguardava il modello regionale, avrebbero richiesto un forte spirito riformatore anche nella fase attuativa. Abbiano assistito, invece, al proliferare di una giungla istituzionale e burocratica in cui si sono moltiplicati i livelli e le forme di governo senza garantire i necessari raccordi funzionali’. Così anche le aspettative che avevano creato nei cittadini la speranza che un potere vicino e radicato del territorio avrebbe consentito possibilità più incisive di partecipazione e di controllo, e maggiore efficienza sono state deluse e tradite. Vedi appunto la degenerazione del potere decentrato e, in qualche caso anche una deresponsabilizzazione dei centri di spesa regionale. Il discorso sembra non fare una piega ma come si noterà manca qualsiasi riferimento a come le cose sono degenerate sul piano nazionale al punto di finire in scandalose gestioni come la protezione civile ma più in generale del suolo, delle politiche di tutela ambientale e del paesaggio in cui lo stato non era stato certo messo in un angolo e tanto meno espropriato dalle regioni e dagli enti locali. Se dinanzi alle alluvioni non siamo riusciti a utilizzare come in molti altri ambiti –almeno fino al momento in cui qualcosa ha smosso Fabrizio Barca- i finanziamenti comunitari non dipenderà anche dallo stato, dal governo e dai ministeri?
Se è vero ad esempio che al momento solo una regione la Puglia ha approvato il suo piano paesaggistico non dipenderà anche dal ministero che doveva tracciare gli indirizzi nazionali a cui i piani regionali avrebbero dovuto conformarsi e invece non l’ha fatto?
Delrio ribadisce che il percorso federalistico che richiede e presuppone collaborazione va proseguito ma va fatto introducendo una clausola di supremazia a favore dello Stato, unica realtà in grado di svolgere quella funzione unificante di coordinamento. Supremazia come ben sappiamo è un termine che evoca più che un futuro un passato di cui è difficile andare orgogliosi ma Delrio lo fa perché questa sarebbe la condizione ‘per guidare e orientare un paese moderno immerso nella competizione globale, senza peraltro mortificare o marginalizzare il ruolo delle Regioni e delle autonomie territoriali’.
La discussione insomma non verterebbe infatti su come sottrarre potere al centro come invece sarebbe avvenuto in passato.
Ma è proprio qui un passaggio chiave che Delrio sembra affidare ad una classe politica locale rappresentata da due soli livelli eletti direttamente –Comuni e Regioni-, in un rapporto ora più equilibrato fra due sistemi di potere territoriali, l’uno eminentemente amministrativo, l’altro eminentemente legislativo e con elementi di forte innovazione come le Città metropolitane’. In effetti Delrio considera le 10 Città metropolitane dove oggi si produce il 34,7% dell’intero Pil un passaggio chiave sebbene come si stato osservato da più parti che da noi a differenza delle esperienze di altri paesi non risultino altrettanto chiari i rapporti appunto tra ruoli eminentemente amministrativi e quelli eminentemente legislativi. Ma soprattutto non emerge con altrettanta chiarezza la frattura di mega durata tra ‘Le città medie al Nord e al Sud’ a cui recentemente ha dedicato un interessante libriccino l’ex ministro Carlo Trigilia. Delrio dedica anche lui e al Sud ossia la bellezza da cui ricominciare un governo serio del territorio superando tra i molti ostacoli anche quello della nostra frammentazione municipale che è l’atra faccia dell’accentramento statale che ha impedito finora il decollo di efficaci politiche nazionale coinvolgenti tutti i livelli istituzionali dove la sussidiarietà non resti uno slogan retorico. Ma proprio qui Delrio sorprendentemente dopo avere esaltato il ruolo chiave delle Città metropolitane aggiunge che l’altra leva è ‘la trasformazione delle Province in enti associativi di area vasta’ capaci di coordinare e aggregare ciò che oggi non lo è ma che è indispensabile. Possibile che Delrio non si sia accorto cosa sta accadendo nelle regioni dove compiti e personale degli enti abrogati stanno passando tra uno sciopero e l’altro alle regioni che vedranno così accrescersi non i compiti legislativi ma proprio quelli ammnistrativo-gestionali con tanti saluti all’area vasta, alla programmazione e via cantando?
Ecco perché sarà bene prima che sia troppo tardi evitare altri danni e correggere qualcosa anche nel dibattito parlamentare.
Renzo Moschini