Alla vicenda un po’ triste della Regione Lazio un merito comunque bisogna riconoscerlo: ha stracciato il velo con cui da tante parti ci si adoperava per coprire la malattia profonda della nostra democrazia rappresentativa, finora agitato come elemento di novità e di moralizzazione. Parlo della questione del ritorno alle preferenze nelle schede elettorali.
Franco Fiorito, il distributore dei fondi del PDL ai consiglieri regionali, si è guadagnato il ruolo che ricopriva forte delle sue 27.000 preferenze. Come si fa ad avere 27.000 preferenze? Cosa si deve prospettare, promettere, garantire, offrire, lasciar sperare? Come si possono contattare tanti elettori? E, soprattutto, chi può farlo? E, dato che non tutti possono farlo, la “scelta” dell’elettore non si restringe a colui, a coloro, che sono in grado di “contattarlo”, quale che sia il modo? E allora, nei casi migliori, si scatena il presenzialismo televisivo, magari a pagamento –ma a cos’altro dovrebbero servire le somme messe a disposizione dei consiglieri o dei parlamentari che vogliono essere ricandidati, anche se questo crea una radicale disuguaglianza per coloro che tali fondi non hanno disponibili?-; ecco le manifestazioni, le cene, le convention, i gadget, i cesti natalizi, i manifesti; insomma tutto quel che occorre per farsi vedere, e che costa tantissimo.
Farsi vedere, non serve altro. Nella nostra società distratta nessuno legge più di tre o quattro righe di un testo scritto – e infatti twitter prevede appunto quel limite all’estensione dei messaggi-; il resto è mera presenza: questa è la grande lezione di Berlusconi, la sua metodologia di comunicazione; dopo di lui, tutti hanno cominciato a fare così, con modi più o meno artigianali e produttivi, ma con un messaggio uguale: “io ci sono”, “meno male che Silvio c’è”. Questo sta facendo Matteo Renzi portando in giro per l’Italia il suo “spettacolo”: poche parole, per lo più riguardo alle forme della rappresentanza, pochissime sui programmi di governo, e buoni autori, scenografi, musicisti, promotori.
Per decenni abbiamo votato con le preferenze, ma in generale –soprattutto in periferia- pochi sapevano davvero chi era colui che stavano eleggendo, rimbalzato fra i candidati per strategie più o meno limpide di apparati quasi sempre lontani, e non di rado subìto: si votava un nome perché collegato a un simbolo; a meno che il candidato non fosse “presente” con promesse, garanzie, offerte, speranze ad personam, come Fiorito (o Andreotti, o Mastella, o migliaia di altri). Il “militante” si spendeva a trovare i voti, e per questo appena possibile veniva ricompensato con un “posto” di rappresentante politico o amministrativo. Che avesse idee, programmi, competenze, qualità ulteriori al “trovare voti” importava poco. Il cursus honorum era scandito dalla progressione dei voti procacciati, trasformati da strumento della politica a suo fine. Con buona pace delle preferenze.
Nelle ultime tornate elettorali politiche si è votato secondo la legge Calderoli, conosciuta meritatamente come “Porcellum”. Le candidature erano decise dalle segreterie dei partiti, e gli elettori si limitavano a determinare il numero degli eletti per ciascun partito. Il rapporto fra candidati ed elettori non cambiava molto, come accennavo. Cambiava invece moltissimo quello fra eletti e partiti che li avevano “promossi”. Non formalmente, ma di fatto chi era stato eletto doveva cercare di garantirsi la rielezione attraverso la dimostrazione di fedeltà assoluta alle segreterie o ai propri personali sponsor, rinunciando nella sostanza a qualunque contributo personale originale alla vita politica, ma limitandosi a “occupare” il posto guadagnato. E a restituire al partito (o al gruppo parlamentare) talvolta parte delle proprie remunerazioni, sempre la quota di rimborso delle spese elettorali: le quali, non necessitando più -come quando vigevano le preferenze- di grandi investimenti propagandistici, finivano per diventare un mero accumulo di capitale da utilizzare per le spese ordinarie di amministrazione del partito e, nella parte eccedente –talvolta cospicua- da investire nella speculazione immobiliare o finanziaria. Lusi, Belsito & C. Poi, con ampia casistica, ci sono gli arricchimenti personali o traversali derivanti dalla corruzione o dalla concussione. Ma questa è un’altra fattispecie, e va tenuta ben distinta.
Ebbene, tutto quanto sinora osservato non è il nostro problema. Ne è solo il sintomo. E se il sintomo è grave, figuriamoci com’è grave il problema. Dobbiamo pur domandarci, a partire dalla Regione Lazio, che cosa è mai successo se uno come Fiorito, che si vanta di essere stato vent’anni fa fra i lanciatori di monetine ai simboli esecrati della corruzione della Prima Repubblica, si ritrova ora a essere additato lui come simbolo esecrabile della corruzione, della decadenza della Seconda Repubblica. Dobbiamo domandarci che cosa è successo mai, in vent’anni, che ha fatto fiorire accanto a una persona come Bersani una pianta che avremmo considerato esotica come Penati, e ha visto diradarsi le schiere generose e appassionate di militanti disposti a sacrificare tempo, passione e denari per portare avanti gli ideali consolidati della loro classe, volentieri identificati nei dirigenti del loro partito.
Certo lo tsunami Berlusconi ha devastato il paesaggio politico consueto, che neppure l’arroganza spregiudicata dei Signori degli ultimi anni della Prima Repubblica aveva avuto la forza di stravolgere. Ancora alla fine degli anni Ottanta del Novecento era possibile e attuale una dialettica fra il modello egemone –di Craxi e dei suoi- e modelli alternativi di Centro, di Sinistra e persino di Destra. Dopo è dilagato Berlusconi, con la sua capacità soggettiva e oggettiva di comunicare, e con una parola d’ordine semplicissima: “pensate per voi come io penso per me”, volgarizzazione fino all’estremo del pensiero liberale del primato dell’Individuo sullo Stato. Volgarizzazione e semplificazione hanno facilmente eluso ogni dialettica, e i corollari antiideologici e antipolitici hanno fatto il resto: anticomunismo, riforma della Costituzione, restrizione dei poteri della Magistratura, nella vaghezza del loro enunciato, hanno costretto gli oppositori a difendersi, a rinnegarsi persino, a perdere la propria identità culturale e politica.
Berlusconi è finito, perché pensando solo per sé, ha distrutto la capacità economica dello Stato e della Nazione, realizzando danni che oggi sono forse valutabili nella loro enormità, ma per rimediare ai quali occorreranno forse decenni. Tanto che a gran voce viene acclamato salvatore della patria un signore elegante, colto e competente che cerca di realizzare in modo plausibile i programmi che Berlusconi orecchiava e utilizzava per coprire i propri affari.
Il nostro problema è questo: tornare a parlare di programmi, di politiche, di prospettive, di idee. Ripristinare una corretta dialettica politica accettando con serenità il fatto che, oltre le urgenze del momento (ma forse anche prima di tali urgenze), la cultura economica e politica di Mario Monti è radicalmente alternativa a una cultura economica e politica di altre tradizioni consolidate, e che alle politiche di questo governo è possibile contrapporre altre politiche che privilegino le esigenze dello Stato rispetto a quelle del Mercato, le esigenze dei cittadini rispetto a quelle degli individui. Specialmente ora che si ha il vantaggio di poter parlare con maggior cognizione di causa di un Socialismo morto bambino in Unione Sovietica, e di un Capitalismo morto vecchio e male in Russia e nel nostro Occidente.