Gentile prof. Berti,
da suo assiduo lettore ho sempre apprezzato l’intelligenza, la cultura, la finezza del suo modo di intervenire nei dibattiti che animano –talvolta- la nostra piccola comunità; e anche il suo ultimo intervento sul Referendum per la Riforma costituzionale mantiene il consueto stile –e lo stile è sostanza della comunicazione-. Per questo mi sono sentito sollecitato a intervenire sull’argomento, pur avendo deciso di restarmene in disparte per la modesta consistenza –dal mio punto di vista- della materia.
Sono infatti fra quelli che ritengono la riforma costituzionale proposta (vorrei dire imposta, a forza di voti di fiducia) dal Governo del tutto ininfluente sulla vita del nostro Paese: apporta pochi elementi di cambiamento, e lo fa non bene, come mi pare quasi tutti riconoscano. Lei stesso, e con lei Giovanni Fratini, dice che “poteva essere fatta meglio”; e più o meno in questo senso si esprimono moltissimi dei 184 costituzionalisti (ma concorderà con me che la qualifica è un po’ vaga) e gli oltre trecento intellettuali (qualifica vaghissima), che pur dichiarandosi favorevoli propongono innumerabili ‘distinguo’. Questa riforma mi è sembrata frutto della volontà di arrivare a una prova di forza che neutralizzasse definitivamente la minoranza interna al partito, completando la ‘rottamazione’ nel PD attraverso un braccio di ferro parlamentare addirittura sulla Costituzione Repubblicana. Il braccio di ferro ha avuto un “vincitore”, grazie anche alla lealtà che si mantiene viva nel PD; e ha avuto degli sconfitti, costretti ad arrampicarsi sugli specchi di opportunità strategiche di cortissimo respiro. Ma, come dice il Presidente del Consiglio, ormai la Politica è divenuta questione di vincere o perdere; e il linguaggio si è talmente impoverito da dover mutuare parole e concetti nientemeno che dallo sport, nuova religione del tempo moderno con tanto di apparato teologico, logico, rituale, devozionale.
Avrei trovato più utile che i 184 + 300 costituzionalisti e intellettuali che aderiscono all’invito di votare “sì”, invece di distinguere durante o dopo il voto parlamentare, avessero potuto contribuire con un apporto scientifico alla definizione di una riforma così importante: ma forse il Governo ha ritenuto di poterne fare a meno, e allora si sono limitati a “scendere in campo”.
A me questa Riforma non piace. Se dovessi solo fermarmi a quel che va ripetendo il Presidente del Consiglio con un’insistenza sospetta, cioè che diminuiscono i costi della politica, che si eliminano delle “poltrone”, che si rendono più veloci i tempi della legislazione, mi viene da dire che è un’occasione clamorosamente perduta per riflettere davvero sulle Istituzioni repubblicane e più ancora sulle forme attuali della democrazia.
Per ridurre i costi della politica –grande e vano cavallo di battaglia dei ‘5 stelle’-, anche ammesso che questo abbia senso fuori di una complessiva riforma dell’apparato statale, era più efficace dimezzare il numero dei deputati: in tempo di comunicazioni veloci, non c’è bisogno di una presenza capillare di “rappresentanti”, poiché i “rappresentati” hanno più facilità a far conoscere i propri orientamenti; e il Senato poteva essere abolito del tutto, o davvero trasformato in una vera assemblea rappresentativa degli Enti Locali che regolamentasse le materie comuni con l’assemblea legislativa nazionale (Camera dei deputati). In ogni caso si sarebbe risparmiato almeno il doppio di “emolumenti” e di “poltrone”. Il poco che resta poteva essere stabilito con leggi costituzionali di rapido corso.
Ma il Presidente del Consiglio e la sua “squadra” non riescono a dirci quale progetto hanno in mente per questo Paese. Fare per fare, velocizzare per velocizzare, riformare per riformare. Mi rendo conto che chi ha bisogno di ricorrere continuamente a concetti come “parrucconi” o come “gufi” sia un po’ in difficoltà a discorrere nelle categorie della filosofia della politica e della scienza della Stato; ma almeno dire dove vuole andare e dove ci vuole portare, senza incantarsi su termini vuoti come “modernità”, “futuro”, “nuovo”, almeno questo si potrebbe fare. E invece, in un turbinare di comunicazioni che esprimono tuttalpiù un’ansia ma non delineano mai un progetto, ci si chiede di aderire a una persona, di affidarsi alla sua guida, per di più avvalorando la richiesta con la benedizione del “Presidente emerito” della Repubblica, che personalmente avevo imparato a non apprezzare fin dagli anni Ottanta, quando già manifestava le sue propensioni “miglioriste”.
Tuttavia un altro dato preoccupante si affaccia minaccioso: la Riforma è stata concepita per rendere più stabile la realtà politica, nella presunzione –immaginabile forse quando ha cominciato il suo ‘iter’- che il futuro della politica italiana era il giovane Presidente del Consiglio di fresca designazione e di recenti trionfi. E infatti la Legge elettorale, che accompagna da vicino la Riforma della Costituzione, era stata costruita in modo da garantire “che la sera delle elezioni si conoscesse il vincitore”, e che il “vincitore” avesse mano libera per almeno cinque anni: pensando a un “vincitore” ben preciso. Poi il trascorrere dei mesi ha visto la possibilità che si dessero esiti diversi da quello immaginato, cioè che “vincitore” risultasse il temibile Movimento 5 stelle, ed è subentrato il panico, con tanto di disponibilità a modificare la Legge elettorale, per conservare almeno spazi di manovra alle minoranze, alle quali la primitiva formulazione ne lasciava davvero pochini.
I 5 stelle sono una forza giovane, e dal mio punto di vista sconta ora clamorosi peccati d’origine. Ma non suscitano in me alcun panico, e meritano di poter contribuire alla pari con tutti gli altri a portare il nostro Paese fuori dalle sabbie mobili nelle quali si trova. Ma si vede che io sono un inguaribile ottimista. I realisti del Governo pensano che un’eventuale “vittoria” elettorale di quel movimento sia catastrofica, e ne trovano –se non ne provocano- una dimostrazione nelle difficoltà della giovanissima Giunta romana. E corrono ai ripari con la disponibilità a modificare la Legge elettorale.
E la Riforma costituzionale? Se la coerenza abitasse ancora questo Paese, il Governo dovrebbe sperare che prevalesse il “no” al Referendum, in modo da rimettere mano a una riforma elaborata sulla base di un’ipotesi politica sbagliata, e quindi fatta male e fatta approvare in modo anche peggiore. Ma, come ho detto, io penso che la Riforma sia stata prevalentemente un regolamento di conti all’interno del partito di maggioranza –che pensava di rimanere l’unico sulla scena per diversi anni-; e quindi il controllo del partito, che avrebbe visto coincidere il proprio leader con il Capo del Governo, sarebbe divenuto controllo totale del potere, nella tradizione novecentesca delle oligarchie cosiddette di Sinistra. E controllo del potere significa possibilità di essere nei luoghi reali delle decisioni che contano, nelle nuove sedi sovranazionali dell’economia e della finanza. Ecco perché la “vittoria” del “sì” o del “no” resta importante: proprio perché il futuro politico del partito e del suo capo sono assai più traballanti di quanto non si prevedesse a suo tempo, il “sì” aiuterebbe molto nella successiva, incerta, campagna elettorale; mentre il “no” diventerebbe un ostacolo insormontabile, e la conseguenza sarebbe l’uscita di scena dell’attuale gruppo dirigente del PD e del Paese.
Come vede, Professore, non ho verità di fede da porre in campo, né certezze, né convinzioni definitive: solo considerazioni da “uomo della strada”, come si dice, che cerca di capire cosa succede intorno a lui. Raccolgo pertanto volentierissimo il suo invito conclusivo a usare la ragione. A essere laici, a cominciare dalla forma più aggiornata della laicità, contro l’“alienazione” del nostro tempo che impone l’immagine della vita come “gara” sportiva: oltre la competizione, in luogo della competizione, forse è l’ora di trovare un senso innovato di “Patto sociale”.
Luigi Totaro
Università degli Sudi di Firenze