In questi ultimi quattro mesi di campagna referendaria si è parlato di tutto fuorché del merito della legge di revisione costituzionale.
Si è parlato di cambiamento, di velocità, dell’urgenza di sbloccare il Paese, di Renzi che deve rimanere, del caos che ci sarebbe se vincesse il no. Dell’uscita dall’euro, della tempesta finanziaria, del governo tecnico.
Quando i rappresentanti del sì hanno messo la testa fuori da Palazzo Chigi e hanno provato ad argomentare hanno usato tre parole magiche: semplificazione, risparmio, snellimento. In realtà nessuno di questi obiettivi viene raggiunto.
Non ci sarà semplificazione. Il procedimento legislativo sarà più complesso, come dimostra il nuovo articolo 70, che porta da uno a tredici gli iter possibili, demanda ai presidenti delle due Camere il compito di risolvere eventuali controversie e consente a entrambe le Camere di richiamare le leggi non di propria competenza. Non si supera il bicameralismo paritario, lo si rende più confuso e più farraginoso. E quando sento dire che con questa riforma le leggi saranno più veloci sorrido, seppure amaramente. Per la legge salvabanche, per il Jobs Act e per cancellare l’articolo 18, per la buona scuola, per la legge Fornero sulle pensioni sono bastati dai 15 ai 40 giorni. Evidentemente quando si vogliono fare le leggi per tutelare e garantire gli interessi di certi poteri e di certi amici, il bicameralismo paritario non è poi questo grande impedimento. Quando invece si discute della legge sul caporalato proposta dalla Cgil, passa un anno e mezzo.
Non ci sarà neppure risparmio, perché la Ragioneria dello Stato dimostra che il taglio del numero dei senatori ridurrà i costi di neppure 50 milioni di euro ogni anno, a fronte del fatto che lo stesso Senato potrà, tramite il proprio regolamento interno, definire nuovi rimborsi spesa (alberghi, ristoranti, treni e aerei) che ad oggi è impossibile quantificare. Se al governo fosse interessato il risparmio sarebbe potuto intervenire proponendo, per esempio, il taglio dello stipendio dei parlamentari. E non ci sarà, infine, alcuno snellimento. Le Province rimangono come enti di secondo livello, scompare soltanto il diritto dei cittadini di votarne i rappresentanti. Le Regioni mantengono competenze decisive, come quella che concerne la gestione dei servizi sanitari. Lo Stato rimane quello, con un Senato un po’ più contratto e composto da consiglieri regionali nominati nei consigli regionali. Il ceto politico locale che si autotutela e autopromuove, distribuendo al suo interno incarichi e guarentigie, a partire dall’immunità parlamentare.
Piuttosto il vero obiettivo di questo progetto di revisione costituzionale è un altro e basta leggere la relazione introduttiva della proposta (non quindi documenti oscuri o segreti) per capirla: rafforzare l’esecutivo a discapito degli altri poteri dello Stato e degli altri attori della democrazia. Si rafforza il governo contro i cittadini (triplicano le firme necessarie per presentare proposte di legge di iniziativa popolare), contro il Parlamento (obbligato dal governo con il voto a data certa a chiudere la discussione in 70 giorni), contro gli Enti Locali (con la clausola di supremazia, vero arbitrio che zittirà le Regioni e i Comuni su qualunque legge che il governo – a suo insindacabile giudizio – ritenesse di interesse strategico e nazionale), persino contro il presidente della Repubblica (che non avrà più il potere di sciogliere il Senato e che, grazie agli effetti dell’attuale legge elettorale, potrà essere messo in stato d’accusa da un solo partito).
E questa logica ferrea – rafforzare l’esecutivo e indebolire il protagonismo dei cittadini e il ruolo degli Enti Locali – è precisamente ciò che da anni chiedono le grandi banche d’affari al nostro governo per rendere la nostra democrazia più funzionale alle regole del mercato e della finanza, cioè agli interessi del grande capitale finanziario. Basta leggere i documenti pubblici di analisi e di indirizzo, a partire dal famigerato documento del maggio 2013 della Jp Morgan e dalle prese di posizione della Morgan Stanley.
Ma se diciamo così siamo complottisti. No, noi stiamo al merito. E non ci stiamo a passare per i conservatori, per i nostalgici del piccolo mondo antico. In realtà siamo più riformatori di Renzi. Semplicemente vogliamo cambiare e riformare nella direzione opposta, salvaguardando il senso politico, morale, civile della Costituzione del 1948. Se davvero si fosse inaugurato in Parlamento e nel Paese un confronto nel merito delle proposte (e non intorno al plebiscito su Renzi) sarebbero emerse proposte chiari, semplici, condivise, utili a superare i limiti e gli errori. Diminuzione bilanciata del numero dei parlamentari senza toccare il diritto di voto; attribuzione alla sola Camera dei deputati della possibilità di esprimere il voto di fiducia; superamento della navetta parlamentare attraverso il ricorso al principio legislativo – vigente negli Stati Uniti – del testo prevalente; costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni.
Non credete a chi vi dice che non c’erano alternative e che se non passa questa proposta il Paese rimarrà bloccato per trent’anni. Un’alternativa c’è sempre, in politica come nella vita. Calamandrei valorizzava della Costituzione il fatto che contenesse un principio di speranza: la speranza di un Paese intero che si ribellava al fascismo e alla guerra e voleva risollevarsi, lo faceva rimboccandosi le maniche, guardando in avanti. Questo progetto di riforma afferma invece il principio della rassegnazione: state buoni, non osate alzare lo sguardo, pretendere di contare, di dire, di affermare la possibilità di un’alternativa. Noi invece quella possibilità la vogliamo affermare, osiamo dirla. Per questo il 4 dicembre votiamo NO, a testa alta e con la schiena dritta.
SIMONE OGGIONNI