Mi pare si possa dire, stando ai sempre più diffusi commenti, che comunque si concluda, se si concluderà, la discussione sulla legge sui parchi che i problemi veri resteranno irrisolti e in più di un caso sicuramente si aggraveranno.
Ciò naturalmente non significa che perciò possiamo lasciar perdere, ma che in ogni caso ora dobbiamo ripartire da dove si doveva partire già nel 2011 quando D’Alì ebbe la brillante idea di presentare il testo che da allora si trascina tra Senato e Camera.
Lo farò partendo da un recente e interessante dibattito avviato al Parco di San Rossore con Pierluigi Cervellati che predispose il suo piano del parco, tuttora in vigore, che assunse meritatamente subito un valore nazionale. Quel piano conferma, infatti, forse per la prima volta in maniera cosi chiara, che il parco è il suo piano. A condizione ovviamente che riguardi tutti gli ambiti del suo territorio, nessuno escluso, paesaggio compreso, che allora si preferiva ancora riservare alle soprintendenze.
Ora, quando nel 2011 si mise mano a questa legge, il contesto nazionale dei parchi, rispetto agli anni in cui era entrata in vigore la legge quadro del 1991, era ormai caratterizzato dalla maggior parte dei parchi nazionali che era ancora senza piano, le aree protette marine erano malamente gestite e separatamente da quelle terrestri, e la nuova legge voleva tagliare fuori anche le regioni dalla loro gestione pur già riservata esclusivamente a quelle riserve marine regionali e notoriamente molto piccole, ma pur sempre gestite separatamente come a Portofino. Ma c’era già molto altro. Dopo l’approvazione a Firenze della Convenzione Europea del paesaggio, il Codice dei Beni Culturali e le attività Culturali ai parchi avrebbe sottratto proprio il paesaggio, su cui peraltro ora erano chiamati a decidere i cittadini come in altri ambiti.
In questa situazione il ministero si era specializzato ormai solo nei tagli di spesa, che ovviamente pagarono e pagano anche le Regioni, al punto di prevedere nella legge insediamenti non ecosostenibili per far cassa.
Su questo brillante scenario che non escludeva neppure la privatizzazione delle aree protette, dopo un po’ di chiacchiere sulla governance si affida i parchi alla managerialità. Insomma finalmente si sono scoperte le competenze giuste per la gestione dei parchi. Qui si impone una sia pur breve considerazione. La crisi di una gestione dei parchi, nel momento per altro in cui risultiamo i più “contravvenzionati” d’Europa per le nostre inadempienze e ritardi, vedi tanto per fare un esempio il Santuario dei cetacei, segue quella dei piani di bacino, fluviali etc., di cui nonostante buone leggi da anni non si sa niente.
Torno al punto di partenza, perché dovrebbe essere chiaro che quando con Cervellati dicevamo che dobbiamo rilanciare politiche di pianificazione capaci finalmente di aggregare, integrare e non frantumare, dicevamo qualcosa che non riguarda solo i parchi e le aree protette e tanto meno solo la Stato. La sua supremazia non e stata mai cosi ampia nonostante il fallimento del referendum. Ora serve, anzi urge quella leale collaborazione istituzionale e costituzionale al bando da troppi anni. E quella non passa davvero solo da nuove leggi visto che ce ne sono di vecchie e buone in attesa di essere attuate.
Renzo Moschini