Caro Direttore,
è passato giusto un anno da quando, commentando il risultato del Referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi come un “giudizio di dio” medievale, contrapponevo alla tua reazione –“senza allegria da vittoria”- per la sconfitta di un brutto progetto e del suo fautore un possibile motivo di leggere in positivo quanto era accaduto perché, dicevo allora, “possiamo ragionare con gran parte di quel 68% del popolo italiano che ha dichiarato di essere interessato a ricominciare a parlare di politica, che vuole cogliere un’occasione che pareva ormai per lui estranea e rituffarsi nella partecipazione a scelte possibili che ci facciano uscire dal pantano, senza paure o moralismi”.
In effetti l’insolitamente alta partecipazione al voto, in netta controtendenza con le ultime consultazioni elettorali; e soprattutto il suo riguardare un tema di per sé poco ‘popolare’ come la riforma costituzionale con i suoi tecnicismi, mi facevano immaginare che esistesse “un’ampia possibilità di ripartire da capo e di dispiegare ragioni e motivazioni per passare dalla paura (sempre pessima consigliera) e dal moralismo (un po’ vecchio e quasi sempre rancoroso) a un nuovo progetto politico capace di generare sicurezza per tutti –anche quelli che arrivano di lontano- e giustizia sociale per tutti, puntando a un nuovo ordine economico imposto dal fallimento palese dell’ordine presente:<…> modelli nuovi di economia, di produzione, di lavoro, di tempo libero, di cultura, di scuola, e via dicendo”.
Insomma, quel 68% di votanti mi suggeriva che era possibile la rinascita della Politica: “Ora è il momento dei forti –concludevo-. Ora bisogna rimboccarsi le maniche tutti, perché la situazione è grave. Come dopo il terremoto, come dopo l’alluvione. Durante la campagna referendaria una domanda retorica dei sostenitori del SI’ era: «qual è l’alternativa a Renzi? Salvini, o Grillo, o Berlusconi –parliamone come da vivo-?». Ancora una volta la paura (pessima consigliera sempre), ampliata dai media nazionali e internazionali e dalle ‘istituzioni’ dell’economia e della finanza, si avvolgeva su se stessa. Bene. Ora l’alternativa bisogna crearla, e non se ne può fare a meno”.
Invece non l’abbiamo creata. Abbiamo lasciato che quella speranza, che abitava principalmente nella sensibilità di sinistra, si avvitasse nel nulla totale dei dibattiti interni al PD (e a coloro che erano accampati nelle sue vicinanze), si perdesse nei bilancini dei numeri in Direzione, ridiventasse questione di numeri, di nomi di posti nei luoghi di un potere sempre più insignificante. Il risultato più appariscente è stato la separazione fra chi timidamente, moderatamente, educatamente (pure troppo!) voleva ricondurre il PD alla sua tradizione sociale, politica, ideologica; e chi si considerava ormai arrivato alla meta con il controllo di un partito –eradicato ormai dalle realtà locali, un tempo vivai di formazione ideale e politica- ridotto esclusivamente a piedistallo del potere del Segretario.
Oggi si colgono i frutti di questa dissennata saga italiana. Non la sconfitta di questo o quel partito –per lo più di sinistra- nella tornata elettorale di domenica 5 dicembre -comunque possibile nella contesa democratica-; ma la sconfitta di tutti, con quel 47% di votanti in Sicilia (per il Referendum erano stati il 57%), e il 37% a Ostia (contro il 57 dello scorso anno in analoga consultazione, e contro il 70% -dato di Roma- al Referendum).
La sconfitta di tutti, perché l’astensione di massa significa che la maggioranza degli elettori non può appassionarsi a un confronto di persone che non conosce e che non sono capaci di coinvolgerla. Quando gli elettori hanno capito che dietro il sì e il no al Referendum stava in qualche modo il futuro della propria libertà di cittadini, son ben corsi a votare: ma cosa vogliamo che interessino –dopo anni che se ne sente parlare- i vitalizi dei parlamentari dei grillini, o la paura degli immigrati dei leghisti e dei Fratelli d’Italia che non s’è desta, o le Libertà del redivivo Berlusconi, o il nulla di nulla del PD di Renzi e il quasi nulla dei Fratelli separati?
Sono tornati a votare gli elettori degli ultimi anni: quelli che hanno sempre votato per principio, o perché direttamente coinvolti, o perché conoscevano, o per dispetto, o per fatalismo, o perché s’è sempre fatto così. Gli elettori che si erano riaccostati alle urne comunque scossi nella loro coscienza politica, quelli del 4 dicembre 2016, hanno detto ancora una volta che a questo giochino non vogliono partecipare. Perché ci vuole troppa fatica. Mi ha scritto oggi un amico a commento dei risultati: “L’anno prossimo ci sono le elezioni, che perderemo; poi ci saranno anni di opposizione inconsistente, e alle prossime ci presenteremo ancora contando i numeri, senza un programma come dio comanda, ma anzi con un programma che non dispiaccia nessuno”. E’ dura campare così.
Ora comincerà l’“analisi del voto” con le sue meravigliose alchimie. A me interessano sempre meno, e invece non so rassegnarmi al tempo e all’occasione perduti dopo il Referendum. Temo che ci toccherà aspettare un terremoto come quello di Pietroburgo, di cui proprio oggi ricorre il centenario.
Luigi Totaro