In questo momento di grande difficoltà la gestione dell’emergenza sanitaria e il sostegno all’economia richiedono ingenti risorse. A questo proposito tra emissioni straordinarie di debito (coronabond), interventi di politica monetaria della BCE e altre ipotesi, da più parti si sente chiamare in causa il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Teniamocene alla larga.
Cos’è il MES?
Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è un organizzazione intergovernativa nata tra 2011 e 2012 durante la crisi finanziaria e del quale è in atto un travagliato processo di riforma interrotto, per il momento, dallo scoppio della pandemia. È uno strumento concepito in piena crisi finanziaria per shock asimmetrici cioè che coinvolgano solo uno o pochi stati. Questi, in caso di bisogno, potrebbero richiedere in prestito risorse che verrebbero attinte dal capitale conferito dagli altri paesi (o meglio dai loro contribuenti, il MES infatti non è un prestatore di ultima istanza, non è una banca e non può stampare moneta). Il suo funzionamento è caratterizzato da grande opacità e la sua struttura ricalca la corporate governance di una banca privata piuttosto che quella di un organizzazione intergovernativa.
Le criticità del MES:
SEGRETEZZA: Tutti coloro i quali ne fanno parte, dai Ministri delle Finanze dei paesi membri ai dipendenti passando per il direttore generale e il consiglio di amministrazione (si, proprio così, c’è un CdA!), sono vincolati al segreto. Per quanto riguarda i ministri questo vale anche nei confronti dei propri parlamenti (tranne che per la Germania, la cui Corte Costituzionale, interpellata come purtroppo non è accaduto negli altri Paesi, si è pronunciata nel 2012 dichiarando l’incostituzionalità di questo aspetto che dunque, asimmetricamente, non si applica alla sola Germania).
IMMUNITÀ: gli articoli dal 32 al 37 sanciscono che il MES gode di completa immunità da qualsiasi procedimento giudiziario, tanto nelle sue sedi e nei suoi beni (che non possono essere ispezionati, perquisiti, confiscati o espropriati) e nei suoi archivi (inviolabili sine die) quanto nelle persone fisiche che ci lavorano (totale immunità e inviolabilità dei documenti).
Eventuali dispute tra Paesi membri (finanziatori) e il MES (che gestisce i fondi conferiti) sono gestite al di fuori degli ordinamenti giuridici dal consiglio di amministrazione dello stesso MES.
CONDIZIONALITÀ: I bond emessi dal MES a favore del Paese che ne facesse richiesta sono “senior” cioè vengono rimborsati prima di altri crediti. Ma soprattutto l’intervento del MES è subordinato ad una importante (ulteriore) cessione di sovranità economica e quindi politica da parte degli Stati che vi ricorrano. Come istituzione creditrice il MES può obbligare gli stati beneficiari del proprio “aiuto” ad attuare specifiche riforme al fine dichiarato di garantire la solvibilità del debito contratto (memorandum of understanding). In aggiunta tali condizionalità verrebbero decise e imposte da un apparato burocratico che opera autonomamente anche rispetto ai governi che finanziano il fondo, una “tecnocrazia” esente da ogni forma di controllo democratico sul proprio operato e che da nessuno e in alcun caso può essere chiamata a rendere conto del proprio operato.
Tradotto questo significherebbe sottoporre a giudizio esterno il proprio debito pubblico legittimando i creditori a imporre ulteriori politiche restrittive in maniera più diretta e vincolante rispetto a quanto già avvenga ora con da una parte i vincoli imposti dal fiscal compact e dall’altra l’ombra del “giudizio dei mercati” che aleggia costantemente sopra qualsiasi decisione politica che le democrazie rappresentative intendano assumere mediante i propri governi.
Nella situazione italiana poi la richiesta di ulteriori tagli sarebbe rivolta ad un Paese che negli ultimi 30 anni è probabilmente il Paese Europeo ad aver strinto maggiormente la cinghia: siamo gli unici ad aver chiuso dal 1992 ad oggi tutti i bilanci (meno quello del 2009) in avanzo primario, siamo tra quelli che hanno contenuto maggiormente l’aumento reale dei salari (svalutazione interna) e anche in seguito alla grande crisi finanziaria abbiamo continuato diligentemente a praticare le politiche di austerità dell’impostazione ordoliberista a matrice tedesca che pervade la costruzione economica dell’Unione Europea (quella politica semplicemente non c’è). Il sistema produttivo e le famiglie hanno sofferto, specie in alcuni territori sempre più distanti fisicamente e simbolicamente dai poli di produzione del valore. Allo stesso tempo, però abbiamo dimostrato una resilienza per certi versi eroica, interi sistemi produttivi si sono convertiti e, specie nel nord del Paese, si sono adeguati al mutato corso degli eventi diventando una succursale della macchina manifatturiera tedesca e ritagliandosi il proprio spazio all’interno della politica mercantilista della Germania divenuta quella dell’intero continente (compressione della domanda interna e affidamento sull’export).
Tuttavia oggi, in un contesto ancora ampiamente segnato dalle ferite provocate dalla crisi finanziaria, ci troviamo a fare i conti con l’enorme dramma umano di una pandemia che sembra aver colpito particolarmente duramente il nostro Paese e che rappresenta il più grande shock esogeno all’economia dell’ultimo secolo. In questa situazione l’Italia non può sopportare l’imposizione di altri tagli al budget pubblico (già oggi uno dei più bassi d’Europa in termini pro capite), altre (sv)endite di asset pubblici e di un ulteriore compressione dei salari.
Chiedere aiuto al MES significherebbe consegnarsi al commissariamento definitivo del nostro sistema Paese rinunciando a ciò che ci rimane della possibilità di immaginare il nostro destino all’interno del perimetro disegnato dalle istituzioni della nostra democrazia rappresentativa.
Il MES e la pandemia:
Quelli in buona fede tra coloro i quali invocano il MES sottolineano, tralasciando quanto descritto sopra, che potrebbe fornire risorse economiche utili per fronteggiare l’emergenza. Su questo fronte pareva essersi inizialmente posizionato anche il Presidente del Consiglio (20/3) salvo poi assumere una posizione ben diversa quando al termine di un Consiglio Europeo nella notte tra mercoledì e giovedì (26/3) si è rifiutato di firmare le conclusioni del vertice dichiarando irricevibile la proposta di utilizzare “strumenti elaborati in passato, costruiti per intervenire in caso di shock asimmetrici e tensioni finanziarie riguardanti singoli Paesi”, messaggio poi ribadito l’indomani anche dal Presidente della Repubblica.
Tralasciando per un momento i pur fondamentali ragionamenti sul prezzo (altissimo) da pagare per ricevere queste risorse, di quanto si sta parlando? L’ammontare massimo di credito erogabile dal MES a beneficio di un Paese è in rapporto al capitale che quest’ultimo si impegnato a conferire nel MES. Per l’Italia questo significa che l’Italia può ricevere al massimo circa 70 miliardi. Che cifra è questa rispetto al costo della pandemia?
Attualmente, nel più ottimistico degli scenari (fine dell'emergenza a inizio maggio), le stime di Cerved prevedono un calo del fatturato per le imprese italiane attorno ai 300 miliardi. Goldman Sachs stima che il PIL italiano nel 2020 passerà dal + 0,2% atteso a un - 11,6% (che significherebbe attorno al centinaio di miliardi in meno di entrate fiscali).
In questo quadro persostenere nel breve termine i redditi dei lavoratori e delle famiglie e garantire il funzionamento dello stato sociale (ospedali, scuole, pensioni, forze dell’ordine) e per proteggere nel medio-lungo il sistema produttivo e quindi occupazionale da chiusure di massa e da facile predazione, l’ordine di grandezza delle risorse necessarie è attorno alle dieci volte tanto quello che potremmo ottenere attraverso il MES. Certo, 70 miliardi aiuterebbero nella gestione dell’emergenza ma ad un prezzo altissimo che in un secondo momento determinerebbe ulteriori politiche
restrittive, tagli, austerità.
Cosa (non) fare?
Il ricorso al MES significherebbe, per dirla con le parole di Fassina, “condizionare prospettive e agibilità politica di questo Paese ad emergenza finita” quando invece occorrerà avere la possibilità di scegliere la rotta migliore per poter riprendere il largo. Occorrerà poter fare una profonda riflessione, anche alla luce di quello che ci sta insegnando la pandemia, su quanto subito negli ultimi trent’anni dal welfare e dall’economia fondamentale, cioè l’insieme di quelle attività che tendiamo a dare per scontate ma che sostengono la vita quotidiana di ciascuno e che anche in questo tempo drammatico ci consentono di continuare a condurre le nostre vite. Negli ultimi trent’anni è stata privatizzata, svenduta, bersagliata dai tagli e quasi sparita dai radar del dibattito politico-economico dominato dalle politiche a sostegno dell’high tech e di altri settori ad alto valore aggiunto senza dubbio importanti ma che si è creduto potessero guidare l’economia del terzo millennio dimenticandosi di ciò che sul piano materiale ci consente di vivere ogni giorno. Sarà il caso di riservare maggiore attenzione all’economia della produzione e distribuzione di cibo, dell’assistenza sanitaria, della formazione, dei servizi di assistenza alla persona, delle reti infrastrutturali (dai trasporti alle telecomunicazioni), di quelle legate alla produzione e alla distribuzione dell’energia.
Settori fondamentali, che saranno centrali anche nella sfida della sostenibilità (sociale e ambientale) e che sono caratterizzati da una minore esposizione alla concorrenza internazionale, da una buona intensità di manodopera e dalla diffusione geografica.
Lo Stato non potrà che (ri)assumere un ruolo centrale per rispondere a uno shock esogeno (esterno al sistema economico) di queste proporzioni. La politica monetaria ha un ruolo chiave nel breve termine, la BCE sembra aver finalmente (18/3) inteso che le circostanze le impongono di avvicinarsi al ruolo di prestatrice di ultima istanza supportando nel vivo della crisi la capacità di spesa delle persone e soprattutto dedicandosi alla sterilizzazione degli spread tra i rendimenti dei titoli di stato dei paesi membri. Tuttavia nel medio-lungo termine, la politica monetaria non può proteggere, nè tantomeno creare occupazione. Occorrerà riscoprire il ruolo dello stato imprenditore, nello specifico dello stato investitore che è l’unica entità (quando dotato di sovranità monetaria o comunque con una Banca Centrale che risponda politicamente), in grado di proteggere e rinnovare lo stock di capitale fisso, quindi l’occupazione, i salari, i profitti e di conseguenza la capacità fiscale.
Occorrerà investire quando ce n’è più bisogno ovvero quando nessun’altro se non gli speculatori ne avrà la facoltà o ne vedrà un ritorno e dove ce n’è più bisogno cioè in settori caratterizzati da alta intensità di capitale, bassa rischiosità e bassi rendimenti come sono quelli dell’ “economia fondamentale”, centrali per poter pensare ad un futuro di benessere più giusto e sostenibile.
Si potrebbe aprire un altro capitolo su come far camminare economicamente queste impostazione, il dibattito è aperto e le idee non mancano. Si spazia dall’emissione di una moneta fiscale parallela a quella di bond non cedibili a tasso fisso e senza scadenza da far comprare alla banca centrale (cd. Perpetuity) fino ad un maggiore ruolo della Cassa Depositi e Prestiti sul sul modello della KfW tedesca.
Il primo passo affinché questo ragionare non sia vano è comunque quello di stare lontano
dal MES.
Matteo Lipparini