“Non si spaventi l’amico lettore leggendo il titolo: Pomontinco non è un gangster, un corsaro nero e neppure un avventuriero, si tratta di un uomo innocuo comune, simile a tanti altri con i quali ci è dato di incontrarci nella nostra vita quotidiana”. Inizia così un articolo a firma L. Lupi, pubblicato dal Tirreno nel novembre del 1945 a pochi mesi dalla fine della guerra. L’articolo continua narrando, fra il serio ed il faceto, l’incontro con un Pomontinco lungo la via della Madonna del Monte. E prosegue: “L’amico lettore che scorrendo questo dialogo avrà sorriso fin qui, udendo i vocaboli e la terminologia locale, comune del resto a tutto il Marcianese è pregato di credere che si tratta di una faccenda seria. Pomonte da anni - assieme a Chiessi altra frazione - lotta invano per ottenere il completamento della rotabile Marciana-Pomonte, di cui - incredibile a dirsi - mancano solo otto chilometri a coronamento dell’opera.”
Ci vollero 15 anni per completare l’opera. Un'opera grandiosa e bellissima che venne realizzata edificando ponti in granito che restano delle vere opere d’arte e tracciando la strada a colpi di mina e di piccone lungo le ripide falesie di Campo Lo Feno e Punta Nera, là dove le rocce nere e verdi, grigie e bianche, compatte e scistose, di un antico fondo oceanico avvolgono e si appoggiano sulla grande massa granitica del Monte Capanne.
Sono rocce che narrano una storia antica. Una storia che ebbe il suo epilogo quando, attorno a 7-8 milioni di anni fa, delle grandi masse di roccia fusa, il magma, risalirono dagli strati più profondi della crosta terrestre. Alcune riuscirono a raggiungere la superficie attraverso fratture della crosta, e così grandi eruzioni vulcaniche di lava, ceneri e lapilli, segnarono la nascita di Capraia. Altre masse magmatiche rimasero bloccate a qualche chilometro di profondità, incassate nelle rocce dell’antico fondo oceanico entro alle quali si erano intruse. Le rocce incassanti vennero “cotte” e fratturate. Entro le fratture penetrarono porzioni di magma. Poi lentamente tutto si raffreddò. Si raffreddò la grande massa di granito; si raffreddarono le piccole porzioni di magma che erano penetrate nelle fratture delle rocce incassanti creando dei grandi corpi filoniani o lenticolari di porfido; si raffreddarono le rocce incassanti indurendosi e compattandosi, e trasformandosi in marmi, cipollini , cornubianiti, metabasalti, metagabbri, metaserpentiniti. Rocce diverse, con differenti coefficienti di contrazione e dilatazione termica. E fu così che lungo le superfici di contatto fra le rocce incassanti e il granito, e fra il granito e le masse di porfido, si crearono delle vere superfici di debolezza e di potenziale distacco. Poi grandi fenomeni geodinamici portarono a giorno la grande massa della “Montagna”. Le rocce che coprivano il plutone granitico scivolarono e coprirono le Terre di Portoferraio e arrivarono fino a Capoliveri. Per milioni di anni, l’acqua, il gelo, il vento, il sale hanno eroso e scolpito la Montagna; modellato le sue valli. Lungo le superfici di contatto fra le diverse masse rocciose l’acqua è penetrata alterando miche e olivine, ortoclasi e plagioclasi, e trasformandoli in minerali argillosi: teneri, scivolosi e spugnosi. Quando piove assorbono l’acqua e aumentano di volume; quando è arido perdono l’acqua e si contraggono. Sono dilatazioni e contrazioni molecolari, piccole, impercettibili, ma sommate e ripetute provocano il distacco delle masse rocciose: la gravità fa il resto.
Tutto questo lo possiamo vedere, lo possiamo leggere, percorrendo la “rotabile” dall’Infernaccio alla Punta del Timone. Le mine ed il piccone hanno aperto alcune pagine del libro delle “Maraviglie della Natura” dell’Elba e dell’Arcipelago. Sono pagine illustrate da paesaggi magici, dove emergono immagini geologiche e geomorfologiche di grande suggestione e bellezza. Ma queste pagine sono molto fragili, sono esposte alle intemperie e alla usura del tempo. Si rompono facilmente e necessitano di una stretta sorveglianza, di cure preventive e, nel caso di improvvise rotture, di rapide riparazioni, prima che si deteriorino ulteriormente.
Non a caso gran parte del Marcianese, ivi compreso il suo capoluogo, sono parte integrante e qualificante delle aree protette dal Parco Nazionale dell’ Arcipelago Toscano, da direttive UE e da protocolli UNESCO (MaB- Man and Biosphere). Questo prestigioso medagliere- che in questi giorni si è ulteriormente arricchito con l’inserimento del Parco Nazionale nella “ Green List” della IUCN (International Union Conservation of Nature)- presenta un comune denominatore: la specifica missione di difendere e nel caso ricostruire equilibri idrogeologici compromessi, con la stretta e leale collaborazione dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali (L394/91 Art.1).
E così, siamo giunti ai fatti di Campo Lo Feno ed alla frana che, dal 15 novembre del 2020 ha interrotto il transito nella “rotabile”: la strada provinciale dell’anello occidentale elbano. Questo tratto è di vitale importanza per le attività sociali, l’economia e la sicurezza sanitaria delle persone che vivono e lavorano nel lontano occidente dell’Elba. Da quando nei primi anni Sessanta del secolo passato venne completato l’anello, ci sono stati vari episodi franosi. E in particolare a Punta Nera e all’Infernaccio, sono stati realizzati notevoli interventi per la messa in sicurezza della strada con reti e sensori.
Sono passati cinque mesi dalla frana di Campo lo Feno, e si prevede l’inizio dei lavori finali di messa in sicurezza ai primi di luglio, e il termine ad ottobre. Sarà passato un anno dall’ evento franoso. Tanto tempo, troppo: come è stato detto dallo stesso Sindaco di Marciana, Simone Barbi - nella manifestazione di domenica 18 aprile a Campo lo Feno, organizzata da un comitato di cittadini al quale si sono unite numerose associazioni del territorio, dalla Misericordia di Pomonte e Chiessi al Consorzio di Capo Sant’Andrea.
A questo punto possiamo auspicare, ovviamente, che i lavori siano conclusi nel più breve tempo possibile, e che nel frattempo, fatte salve le primarie ragioni di sicurezza, siano attivate parziali aperture della viabilità, magari posizionando dei sensori di controllo in parete.
Ma è imperativo non dimenticare l’estesa vulnerabilità e criticità idrogeologica della zona, attivando da subito le procedure per disporre di un piano di intervento sui punti a maggiore rischio, e definendo altresì un percorso normativo che, nel caso di analoghi dissesti franosi, sia possibile intervenire nei tempi e nei modi previsti dalla legge per le catastrofi naturali. Poiché di questo stiamo parlando, alla vigilia del 51° anniversario del "Giorno della Terra"!
Beppe Tanelli