Nella legge fondamentale della nazione sta scritto: “Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Letteralmente significa che il popolo è sovrano, che esercitare la sovranità è sua prerogativa specifica, e che può e deve farlo entro i confini stabiliti dal citato articolo e dai seguenti della Carta Costituzionale.
Sarebbe necessario non dimenticare quel dettato, che costituisce norma per tutta la vita della nostra società. E che trova alla domanda “a che serve la scuola?” una convincente risposta, cioè che la scuola serve prima di tutto per istruire i cittadini giovani e meno giovani a esercitare la sovranità, da cui derivano l’ordinamento e il buon funzionamento della comunità nazionale.
Perché essere responsabilmente sovrani -cioè realizzare la democrazia- non è qualità innata, non è atteggiamento nativo o spontaneo. E neppure è compito da poco, se solo se ne comprende l’importanza: il fatto che nelle ultime tornate elettorali la metà dei cittadini italiani abbia rinunciato a esercitare il proprio voto, a intervenire per dare indirizzo alle diverse istituzioni di governo, ben significa che si va perdendo il senso di appartenenza alla sovranità, scivolando gradualmente verso la sudditanza -“tanto fanno come gli pare” (chi, poi? I “politici”, che è più facile blandire o disprezzare che indirizzare con puntuali indicazioni)-.
Alla luce di queste considerazioni, il compito primario della scuola -tutta, Primaria, Secondaria, Universitaria- è insegnare a essere cittadini sovrani. Sembra banale, ma non lo è affatto. Già l’aver istituito (2019) l’Insegnamento di Educazione Civica -si tace, per carità di patria, il caos organizzativo prodotto dalle indicazioni ministeriali in merito- tradisce un equivoco forse non involontario, poiché la scuola, tutta la scuola, tutta l’attività didattica e per tutto il tempo a disposizione deve provvedere a insegnare a essere cittadini sovrani; non 33 ore d’insegnamento sparpagliate nel corso dell’anno e divise -divise- fra tutti i docenti di ogni classe. Cioè l’insegnamento che deve dare forma e sostanza all’intera attività scolastica è stato ridotto a un ruolo aggiuntivo, appiccicato vien da dire; e la stessa genesi della norma di legge che l’ha istituito conferma la confusione concettuale -o la malafede- del legislatore: è stata votata in gran fretta “per arginare il fenomeno incalzante del “Bullismo”. Cioè di un fenomeno che è specifico ambito della sociologia, della psicologia dell’età evolutiva, delle scienze sociali: e non certo per 33 ore in un anno.
Anzi, sembra di poter affermare che le indicazioni ministeriali (e quelle della UE che ne sono all’origine) sono ordinate esattamente al fine opposto: la riforma strisciante della scuola -iniziata alla fine dello scorso secolo con l’ansia modernizzatrice e globalista del ministro Berlinguer, unita alla inopinata sudditanza nei confronti della cultura pedagogica aziendalistica degli Stati Uniti- negli ultimi venti anni ha progredito -o regredito- a snaturare il compito della scuola a mero istituto di formazione professionale, destinato a fornire agli utenti le “competenze” per inserirsi quanto prima e quanto meglio nel mondo del lavoro -la “Scuola del fare”, nell’indicazione della “Buona scuola” del Governo Renzi-.
Naturalmente non si intende qui svalutare l’importanza della formazione professionale, ma affermare che essa è altro dalla scuola, e forse deve competere ad altre agenzie da essa separate. Se la scuola è soltanto formazione professionale, se le competenze sono separate o rendono pleonastiche le conoscenze, se si deprime la capacità critica di osservare la realtà della propria vita e della vita circostante assumendola come “dato”, predeterminato spesso da un’entità lontana e impalpabile presentata come obiettiva -il mitico “algoritmo”-, allora il suo compito appare piuttosto quello di formare sudditi obbedienti, non certo sovrani in grado di governare la Nazione “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Di questi giorni sono le polemiche di stampa sulla Storia -subito duramente colpita dai riformatori “progressisti”, decurtandone l’Insegnamento di ore curricolari e (per alcuni ordini di scuola) dell’indispensabile supporto dell’Insegnamento della Geografia-: il mito aziendalista berlusconiano/morattiano delle “Tre I” -Informatica Inglese, Impresa- ha finalmente trovato il suo sbocco naturale nell’ideologia economicistica neoliberista, che indica nell’impiego ottimale del “Capitale umano” l’obiettivo esclusivo dell’Istruzione. Per definizione il Capitale umano -come il Capitale in generale- non necessita di conoscenze, di capacità critiche, di ragionamenti o diversioni intellettuali: “laurà e dané” dicevano gli antiquati “cumenda” del secolo scorso, guardando soddisfatti i frutti dei loro investimenti e del loro lavoro. Oggi, più modernamente, tutto è sottoposto a “Valutazione” secondo parametri assoluti, compreso il successo dell’imprenditore, dell’impresa, della produttività, del lavoro.
La scuola, nella nuova concezione, non ha a che fare con persone, ma con porzioni di “capitale umano” da “adoperare”, una volta fornito delle previste “competenze”, nella produzione -non importa di cosa, qualcuno lo saprà- con l’obiettivo della massima produttività.
E’ chiaro, allora, come tutto l’universo della cultura umanistica -salvo il “nuovo umanesimo” ora di moda, dai contorni piuttosto confusi, se non nella mente dei suoi promotori e dei suoi compratori, specialmente se ben forniti di capitali-, la cultura tout court diventa un peso, un intralcio, un ingombro, in modo particolare per chi ne parla e decide senza esserne stato forse neppure mai sfiorato.
“Qualcosa abbiamo sbagliato -scrive Roberta De Monticelli su “Repubblica” (26.11.2021)-, se oggi chi governa questo cuore della democrazia -l’istruzione per tutti, le parole per pensare, per ragionare e fare domande- sostiene che compito della scuola “non è trasmettere conoscenze, ma far sì che gli studenti si orientino nel mondo della digitalizzazione”; che la scuola deve eliminare le nozioni (o il nozionismo) e invece portare gli alunni a vedere le imprese, e così via, variando sui modelli pedagogici tanto più ottusi quanto più generici”.
Certo la scuola alla quale si sono formate le generazioni ora al tramonto aveva i suoi bei difetti. Prosegue De monticelli, “devono pure aver radici nel passato che noi rappresentiamo queste dismissioni endemiche delle istituzioni della vita civile, questi continui svilimenti del loro compito ideale in funzione delle più basse contingenze, questo gaio cinismo con cui si barattano governi e presidenze della Repubblica e si condannano le nuove generazioni all’analfabetismo e al silenzio civile. <…> Come ci si può stupire che l’impianto storicistico e gentiliano del nostro liceo, che pure sciorinava ai nostri occhi svagati le avventure della coscienza umana, sia crollato sotto i colpi ottusi della pedagogia aziendalistica imperante. Era già divorato dall’interno dal suo vuoto d’agganci -non, come si pretende oggi, alla vita produttiva. Ma alla responsabilità morale e civile di ciascuno di noi di fronte agli altri, alla città, alla storia-”.
Si sono persi decenni prima di riconoscere alle scienze “dure” -logica, matematica, chimica, fisica, biologia- il loro ruolo determinante nella corretta elaborazione del pensiero e della conoscenza, insieme all’arte, alla letteratura, alla linguistica, alla filosofia. Ma la soluzione strisciante di ridurre la conoscenza a “competenza” in nome della supremazia della scienza economica e delle sue “leggi” mi pare rimedio assai peggiore del male. Soprattutto, se in nome di quella supremazia la scuola rinuncia a formare quelli che già don Milani chiamò “i sovrani di domani” (ancora lo ricorda De Monticelli), in pericolo è proprio l’ordinamento democratico sancito dalla Costituzione.
Luigi Totaro