Dopo la vittoria di Alessandra Todde nelle regionali in Sardegna, Antonio Scurati ha pubblicato su “Repubblica” (10.03.2024) una interessante riflessione che parte dallo scoramento della situazione presente per immaginare la possibilità di un’inversione di prospettiva: “Poi, però, un bel giorno accade qualcosa. Può essere qualsiasi cosa, perfino una inattesa vittoria elettorale d’interesse regionale può bastare, e rinasce la speranza. Allora la ruota reazionaria smette di girare, la macina del futuro s’incaglia, il mondo cessa per un istante di franare a destra. È soltanto un’illusione? Non necessariamente. A patto che quella speranza venga nutrita. Sì, perché la speranza non è un vago sentire soggettivo. La speranza è la principale risorsa della politica progressista, la sua più potente passione, la sua principale vocazione. Il suo dovere morale”.
Ha ragione Scurati. Ma come si nutre la speranza? L’inattesa vittoria in Sardegna non si è ripetuta in Abruzzo, e pare proprio che i “Progressisti” non abbiano capito molto il senso degli accadimenti. “Campo largo”, “Campo giusto”, “Campo larghissimo”: tutti insieme appassionatamente per vincere; e poi si perde. Perché il problema non è di far numero se non se ne legge la qualità. Perché i numeri parlano chiaro, soprattutto “quelli che non ci sono”: 47,5 di astenuti in Sardegna e addirittura di più in Abruzzo. I numeri espressi -malgrado l’elemento di indubbia novità di una donna alla presidenza della Giunta regionale sarda- dicono che in sostanza i due campi avversi hanno preso i voti che potevano aspettarsi, senza rilevanti scostamenti. E così non cambia niente: questa soluzione può andare bene all’attuale maggioranza “reazionaria” -per usare la terminologia di Scurati-, ma non certo alle forze “progressiste”. E non fa bene alla Politica.
Eppure si insiste. Le tattiche elaborate per le prossime elezioni pongono al primo posto la preoccupazione di superare le divisioni, di trovare punti d’incontro -di “trovare la quadra”, per usare una espressione cara al vecchio Bossi, che di politica non ne ha mai fatta molta (e tuttavia sempre di più dei suoi successori)-, per provare a “vincere” l’eterno “campionato” elettorale, con la “squadra” migliore -per usare un’altra espressione ormai corrente, cara al vecchio Berlusconi, che a suo modo di politica ne ha fatta tantissima-. L’obiettivo sembra esser quello di spostare un po’ di voti da una forza all’altra; per regalare la vittoria ai propri tifosi, e dividersi il poco potere che ancora è disponibile in tempi di vacche magrissime. E allora, ecco in campo Padri nobili (???), vecchie glorie (???), reduci delle gloriose battaglie di decenni remoti, giovani emuli rampanti, coraggiosi militanti -il vecchio caro “zoccolo duro”-, apparati ormai obsoleti e quasi smobilitati: tutti guardano a quel 50% di voti espressi, senza neppure cercare di capire perché l’altro 50% se ne stia in disparte, non partecipi, paia disinteressato. Certo, qualche deluso e stanco ci sarà; qualche disperato travolto dai problemi quotidiani; qualcuno convinto che con o senza di lui le cose restano come sono. Ma in quel 50% di “astenuti” ci sono -e la mobilitazione pronta e consistente che si verifica ogni qual volta interviene una catastrofe naturale; ma anche quando vengono lanciate campagne di raccolta fondi per sostenere la sofferenza, e la scienza che cerca di lenirla- ci sono tanti cittadini ben attenti, capaci di agire, generosi e animati dal senso di giustizia, che non sono (o non sono ormai più) interessati al perverso risiko elettorale del potere, e che non vi trovano risposta all’esigenza di un cambiamento capace di recuperare il senso della dignità, della giustizia, della solidarietà sociale -esigenza che pure risulta evidente dai numeri della povertà diffusa, della sottrazione indebita del contributo fiscale alla vita comune, della sproporzione incredibile fra concentrazione delle risorse nelle mani di pochi e diffusione spaventosa delle privazioni e delle umiliazioni-. In quel 50% ci sono molti che potrebbero provare a cambiare il corso degli eventi, e che ancora sono disconosciuti, ignorati, paventati, respinti: i giovani che iniziano la loro battaglia di sopravvivenza, i lavoratori che con mille difficoltà la stanno combattendo, forza vitale della società che spesso si ritrova a “scaricare a terra” -nei social media, nelle movide, nel culto dei nuovi miti specchio di ciò che non si è e si crede meglio di quel che si è- il surplus di energia di una vita senza senso, i loro bisogni, i loro desideri, le loro domande e le loro possibili risposte. In quel 50% c’è una parte di cittadinanza che non si pronuncia perché nessuno gli parla perché, come dice ancora Scurati, “suscitare euforia, energia rinnovatrice, fiducioso slancio verso l’avvenire è molto più difficile che soffiare sulle passioni tristi della paura, del rancore, del senso di abbandono. La paura si prepara al peggio, la speranza si affida al meglio. <…> Ma dobbiamo continuare a farlo perché il verbo sperare si coniuga obbligatoriamente con il bene”.
Certo non è che quelli che non vanno a votare sono tutti potenziali “progressisti”. Ma almeno in parte sono persone alla ricerca di una convincente ipotesi di lavoro politico da percorrere oltre la dimensione privata: e questa ipotesi di lavoro non può venire dalla Destra, che -a quel che si vede-cerca solo il potere e la rivincita. Per questo sono un pubblico interessabile e interessante per un cammino comune.
Ma, oltre le tattiche, il vero problema è la strategia: è ritrovare il senso dell’agire, l’identità perduta. Con la cosiddetta morte delle ideologie (non tutte però. Il capitalismo pur gravemente malato, sopravvive e lotta per conto suo) è morta l’idea di classe dei Lavoratori, trasformati in “capitale umano”; e con essa la lotta solidale alla ricerca della giustizia e della prosperità per tutti. Ovviamente è morto anche l’interclassismo cattolico (democristiano) -con buona pace dei Prodi e dei suoi “ulivisti”, che però non pare se ne siano accorti-, perché senza classi non ha senso l’interclassismo; e infatti si è disperso ad ammorbidire l’insofferenza di coloro che subiscono le conseguenza perniciose dei contorcimenti di un capitalismo che ha sostituito i capitalisti con la finanza. E’ sopravvissuta l’unica identità possibile in queste condizioni, modellata sul tifo sportivo, che trasferisce il senso di sé fuori di sé -alienazione, la chiamava Marx-, in qualcun altro immaginato come migliore perché capace di raggiungere il successo, orami divenuto la sola forma di riconoscimento -like computabili ed esibibili, come gli ex voto lasciati sotto le statue delle madonne pellegrine-, quasi santificato (influencer). Tutto è semplificato: bianco-nero, buono-cattivo, noi-loro: la Repubblica, la Resistenza, la Costituzione diventano riferimenti rituali, giaculatorie da devoti attempati. La Cittadinanza è quasi il letargo -non esce neanche per andare a votare-.
Ritrovare l’identità perduta: non si tratta certo di guardare indietro, di tornare sulle tracce del passato. Il nastro della Storia non si riavvolge. Si tratta di captare i segnali di coloro che tacciono, e di decodificare le parole di coloro che gridano il loro disagio. Con questi si devono “superare le divisioni”, “trovare punti d’incontro”, “trovare la quadra”. Non ci chiedono di vincere, di prendere il potere, di amministrarlo -tutto ciò viene “ex consequentia”, come dicevano gli Scolastici-. Ci chiedono di “trovare un senso a questa vita”, come canta il Poeta; di proclamare una ragione capace di diventare strada da percorrere senza abbandonarsi a un domani inesorabile e confuso. “E, allora, coraggio, -conclude Scurati- donne e uomini che vi candidate a risollevare dalla polvere la bandiera progressista. Dateci una concreta, non effimera speranza per il mondo a venire. E vi seguiremo”.
Luigi Totaro