L’evento tanto atteso si è concluso: le elezioni presidenziali americane, che hanno tenuto sospesa la vita politica mondiale per un paio d’anni, si sono finalmente svolte, e ha vinto Donald Trump. L’analisi “politica” di questo esito, le motivazioni sottostanti in profondità sono ora argomento di esperti e di politologi: cercheremo di capire, anche grazie a loro, cosa sta dietro a un risultato che -a cominciare dalla storia e dall’età anagrafica del vincitore- appare sconcertante al di là del significato politico. Forse però qualche considerazione non specialistica, da “osservatori della strada”, può non essere disutile, anche per il comune coinvolgimento in una vicenda che non è possibile in alcun modo considerata solo “americana”.
Chi ha perso appare chiaro: la politica “liberal”, inaugurata da Bill Clinton nei primi anni ’90 dello scorso secolo, e che ha caratterizzato i Democratici statunitensi fino a Obama e poi a Biden e Harris, con successi alterni. Ma che ha variamente influenzato i Laburisti inglesi e i Democratici italiani (PDS, DS, PD), da Tony Blair (Primo ministro GB dal 1997 al 2007) a Veltroni (Segretario del PDS dal 1998 al 2001, e poi sempre in primo piano nella Sinistra delle varie sue incarnazioni, fino a divenire il primo segretario del neonato Partito Democratico, dal 2007 al 2009), a Matteo Renzi e alla catastrofe del Partito che con lui si consumò, senza tuttavia produrre sostanziali cambiamenti di strategia. “Maanchismo”, “buonismo”, ma soprattutto culto della società politica americana -liberalismo, liberismo, neoliberismo, tutti “dal volto umano”, mentre si sgretolava la società solidale lasciando il posto all’individualismo del “merito” e della produttività a qualunque costo-.
Così la scuola veniva riprogrammata per essere “azienda competitiva”, cessando di essere pensata come comunità educante e inclusiva -anche se questo provvidenzialmente non è riuscito bene, grazie alla resistenza coraggiosa degli insegnanti e del personale scolastico-. La scuola avrebbe dovuto diventare lo strumento di una società più interessata alla produttività che non alla cultura e alla capacità di discernimento, guidata dal mito della “performance” e del successo, ormai dilagante attraverso i “mass media” e soprattutto attraverso i “social media”. Il tutto contrabbandato come “modernità”, e come tale accettato anche dalle Sinistre per timore di essere accusate di nostalgie novecentesche o ottocentesche -socialismo utopistico, marxismo, sindacalismo, libertarismo; se non addirittura risalenti alla Rivoluzione francese della “Liberté, Égalité, Fraternité, magari nella rivisitazione della Comune parigina del 1871-. Così la politica Liberal ha finito per essere un’eterna incompiuta, una roba da intellettuali perditempo e comunque inconcludenti, sempre in cerca di “parole d’ordine” cui affidare la garanzia della propria modernità, e di valori da difendere e tutelare -l’ideologia Woke, appunto-.
Attorno, la realtà è divenuta ogni giorno meno “sociale”, con lo Stato sempre meno presente nella vita dei cittadini a vantaggio dell’iniziativa privata (anche nei Servizi essenziali -scuola, sanità, infrastrutture e trasporti, sicurezza-); con i lavoratori sempre meno garantiti, e sospinti verso la trasformazione in “partite IVA”, e quindi verso la concorrenza fra di loro, verso l’autosfruttamento e lo sfruttamento di dipendenti più o meno occasionali; con la complicità nell’evasione fiscale, e il sostanziale isolamento, da affidare alle promesse di chi si propone difensore dei loro interessi (economici): l’antico, vecchio, caro “bellum omnium contra omnes” di Hobbes. La scomparsa del filtro culturale del pensiero critico elide le differenze di condizione personale, e ogni proprietario della casa in cui vive si sente immobiliarista, ogni gestore di bar si sente Briatore, ogni impresario edile si sente Caltagirone. Ma anche ogni bullo di periferia si sente Al Capone, e finisce per assumerne gli atteggiamenti, e gira armato, e ferisce e ammazza per una scarpa sporcata o per una “mancanza di rispetto”. E il meno forte (fisicamente) -e soprattutto la meno forte- deve sentirsi sottoposto, e non osare di “alzare la testa”. Spesso un diverbio si compone versando sangue di congiunti, amici, compagni di scuola, “fidanzati” e “fidanzatini” e leaderini di centro e di periferia: quasi un gioco, con i “campioni”, le sfide, le lotte; il tutto senza alcun oggetto reale -si pensi al “tifo” sportivo- e quindi con la necessità di trovarne uno (il denaro, per esempio, poco o tanto) come trofeo da esibire-. Un’escalation di violenza che fa paura, e per la quale -quando non ci si “protegge” da soli (si pensi alla spaventosa diffusione delle armi)- ci si trova a chiedere una protezione altrettanto violenta.
Per la Destra nostrana questo non è un problema: è nata così, è questa la sua storia. Non fatica a comprenderne sensazioni e pulsioni. Parla con facilità questo linguaggio, e propone soluzioni immediate, spicce. Quasi mai funzionano, ma questo si vede solo dopo. E sa bene -il Governo italiano attuale ne fa uno dei suoi punti programmatici- che tutto si gioca intorno alla Cultura: per questo cerca di occupare in ogni modo ogni agenzia culturale -a cominciare dalla scuola, dall’Università, dalla Ricerca scientifica-, nel tentativo di consolidare una società alternativa a quella in cui è nata la Costituzione repubblicana.
Così a livello mondiale. A proposte facili corrisponde un facile successo, più o meno provvisorio. Ed ecco la vittoria di Trump.
Scrive Michele Serra nella sua “Amaca” di “Repubblica”:
«Si stava meglio quando il cambiamento climatico non esisteva, dunque bisogna ritornare a vivere, produrre e consumare come se non esistesse. Si stava meglio quando non si parlava così tanto di diritti, di genere, di problemi personali, le donne facevano le donne, gli uomini facevano gli uomini, il resto erano solo buffe e isolate eccezioni, dunque è ora di tornare ai buoni, vecchi, sani costumi di una volta.
Si stava meglio quando arrivavano meno immigrati, dunque bisogna che non ne arrivino più, l’unica immigrazione virtuosa, nell’epopea americana, è quella originaria, è la Conquista da parte dei coloni bianchi.
Si stava meglio quando il ruolo dell’Europa era obbedire, dunque bisogna che l’Europa smetta di illudersi di essere un soggetto politico e torni a essere un insieme di piccoli vecchi Paesi divisi e vassalli.
Si stava meglio quando la globalizzazione non favoriva i prodotti cinesi, dunque bisogna riportare il commercio mondiale al suo stato precedente introducendo dazi alti come muri.
Si stava meglio quando la polizia poteva sparare ai delinquenti senza tante storie, dunque per mantenere l’ordine bisogna tornare alle maniere forti e piantarla con il piagnisteo umanitarista.
L’America tornerà grande quando tornerà a essere come prima, e non importa quanto questo “prima” sia reale, quanto mitologico. Se la sintesi del successo di Trump è, grosso modo, questa, è una piccola summa, molto aggressiva ma non inedita, del pensiero reazionario: i cambiamenti portano solo guai, torniamo al nostro dorato passato.
Rimane libero, quasi incontaminato, il campo del futuro. Delle strade nuove e sconosciute. Ma quello sarebbe il lavoro della sinistra, chissà che un giorno o l’altro non ricominci a farlo».
Luigi Totaro