Consiglio di Stato ribalta la sua precedente posizione e con una sentenza dice no al silenzio-assenso nei Parchi. Come scrive Fulvio Albanse su Lexambiente: «La Quarta Sezione del Consiglio di Stato con la Sentenza n. 5188 del 28 ottobre 2013, sgretola la disposizione contenuta nell’articolo 13 della legge 394 del 1991, che prevede l’acquisizione del nulla osta nelle Aree Naturali Protette tramite silenzio–assenso, dopo sessanta giorni dalla presentazione della domanda».
La sentenza cancella quindi la piena vigenza dell’istituto del silenzio, sostenuta dallo stesso Consiglio di Stato con la sentenza del 29 dicembre 2008, ma adottata dalla Sezione Sesta, nonostante la vigenza del comma 4 dell’art. 20 della legge 241/90, riconfermata dalla legge 80/2005, che di fatto impediva il silenzio assenso in materia ambientale. Albanese è molto soddisfatto perché, come ricorda, era stato proprio lui a sollevare, con due articoli del 2009 e del 2010, «L’incompatibilità del silenzio-assenso con l’acquis comunitario, con diverse e fondamentali pronunce della Corte Costituzionale e come finalmente riconosciuto dai Giudici di Palazzo Spada, con la novellata legge 241 del 1990».
Si tratta di una sentenza che mette fine ad una situazione molto pericolosa per i Parchi nazionali e regionali e le aree protette in genere, una norma vecchia ed inapplicabile dove si devono conservare ambienti naturali spesso fragili e rari e che non sempre sono compatibili con le attività antropiche. «Dunque – come ricorda Albanese - non può sfuggire l’assoluta necessità dell’Ente Parco, di essere in grado sempre di poter valutare attentamente la possibilità di esercitare tali attività all’interno dell’Area naturale Protetta, mediante il preventivo rilascio del nulla-osta. Del resto, la Corte Costituzionale negli anni ha fornito un contributo determinante per il superamento del modello di tutela ambientale antropocentrico nel quale l’uomo è protagonista indiscusso e l’ambiente è ridotto ad un semplice mezzo per il soddisfacimento dei suoi bisogni. Infatti, l’inserimento nella legge 394/1991 della procedura di silenzio-assenso non può che leggersi come una strategia mirata soprattutto alla realizzazione delle esigenze umane».
Quindi, quando la Suprema Corte dice che «Oggetto di tutela (cfr. la Dichiarazione di Stoccolma del 1972), è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi», sottolinea con chiarezza che «La tutela ambientale con la riforma della Parte seconda del Titolo V della Costituzione, è oggi totalmente incentrata nel modello biocentrico (o ecocentrico) nel quale l’uomo è ridimensionato a pari livello con tutti gli altri membri della comunità vivente facenti parte dell’ecosistema e la specifica tutela (nella fattispecie la legge 394/1991) non è certamente rivolta al soddisfacimento dei suoi bisogni, bensì alla tutela del valore naturalistico presente nell’area concepito come bene della intera comunità».
La sentenza riguarda il ricorso presentato da un’azienda agricola contro il Parco regionale dei Castelli Romani. L’azienda aveva chiesto il permesso di costruire nel Parco e, non avendo ricevuto il nulla-osta dell’Ente riteneva maturato il silenzio. Il Comune di Grottaferrata aveva quindi rilasciato il permesso a costruire. Poi l’Ente Parco regionale dei Castelli Romani comunicava all’azienda i motivi per i quali non era stato rilasciato il nulla-osta e l’azienda faceva ricorso al Tar contro il provvedimento dicendo che era scattato il silenzio-assenso. Ma il Comune di Grottaferrata ci ripensava e disponeva tuttavia la sospensione dei lavori sulla base del parere dell’Ente Parco che negava il rilascio del nulla osta, ricevendo in cambio una denuncia per violazione e falsa applicazione delle leggi 394/91 e 241/90 e di altre normative perché, «Contrariamente a quanto ritenuto dall’Ente Parco, si sarebbe ormai formato il silenzio assenso e quindi l’Ente non avrebbe potuto adottare un provvedimento di diniego sulla domanda di rilascio del nulla osta». Il Parco veniva anche accusato di violazione e falsa applicazione della legge ed eccesso di potere per difetto del presupposto ed incompetenza relativa, mentre l’ordinanza di sospensione dei lavori del Comune di Grottaferrata sarebbe stata illegittima, perché lo stesso Comune aveva rilasciato il permesso a costruire ritenendo concluso il procedimento di competenza dell’Ente Parco.
Ma tutte queste accuse sono state respinte. Nel dettaglio, nella sentenza del Consiglio di Stato si legge: «La prima questione che l’appello introduce riguarda la formazione del silenzio-assenso sulla istanza di nulla-osta, che il ricorrente ritiene formalizzatosi in base alla norma speciale dell’art. 13 della L. 394/91, non essendo a suo avviso applicabile al caso di specie la precedente norma generale dell’art. 20 della L. 241/90 (come modificata dal comma 6 ter l- n.80/ 2005), secondo cui, come evidenziato dal TAR, la disciplina sul silenzio-assenso non sarebbe riferibile ai procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico. Il primo giudice, con la sentenza impugnata, ha invece affermato tale applicabilità, rafforzata dall’art. 22 della legge 15/05, operante sino all’adeguamento da parte delle leggi regionali, evidenziando che: in materia di competenza concorrente tra Stato e Regione, vige l’osservanza dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, al cui rango assurge il citato art. 20; lo stesso art. 28 dell’invocata l.r. Lazio n. 28/1997 “rimanda alla disciplina nazionale contenuta nell’art. 13 della L. 394/91 ed in particolare ai commi 1, 2 e 4 dello stesso articolo. Premesso che si pone fuori dalla questione l’art. 28 della L.R. n. 29/97 (poiché non regola alcun silenzio e rimanda alla citata disciplina nazionale contenuta nella “Legge quadro sulle aree protette”), il Collegio è dunque chiamato a stabilire se, come sostiene l’appellante, nel conflitto tra la norma contenuta nell’art. 20 comma 4 della L. 241/90 (come sostituita dalla L. 80/05) e la disposizione dell’art. 13 della L. 394/91, sarebbe quest’ultima, in quanto norma speciale, a dover prevalere su quella generale sopravvenuta o, al contrario, secondo l’orientamento accolto dal TAR, debba darsi prevalenza alla prima. Alla questione deve darsi esito nel senso indicato dal primo giudice, muovendo dal rilievo per cui entrambe le norme hanno la medesima natura procedimentale e vengono a disciplinare lo stesso istituto operante in materia edilizia-ambientale; resta, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presuppone un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non può spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto. In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l’istante, disciplinano il medesimo istituto procedimentale del silenzio-assenso, deve quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile (art. 15 cod. civ.). Anche qui il Collegio condivide, perciò, l’orientamento espresso dal TAR, per cui “non si può far ricorso al principio di specialità che postula l’equivalenza tra le norme stesse, ma deve necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su quella precedente”. Ciò considerato, è evidente che l’intervento dell’art. 20 della legge n. 241/1990, come successivamente modificato, determina che il regime del silenzio-assenso non trovi applicazione in materia di tutela ambientale, con la conseguenza che il diniego di n.o., pur sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge precedente, risulta pienamente legittimo in quanto emesso in forza di un potere non consumatosi – in quanto esplicato nella vigenza della nuova legge - ed il cui esercizio, dunque, non presupponeva l’annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa inesistente. Quanto sopra palesa l’infondatezza dei primi due motivi d’appello, in fatto rubricati sub A e B».