Ero a Latina, il 22 marzo, tra i 100.000, per partecipare alla Manifestazione organizzata nel capoluogo pontino, con Don Ciotti, in ricordo delle vittime delle mafie organizzata da LIBERA, Associazione contro i soprusi delle mafie in tutta Italia, e, da AVVISO PUBBLICO, Associazione nata nel 1996 con l’intento di collegare ed organizzare gli Amministratori pubblici che concretamente si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica nella politica, nella Pubblica Amministrazione e sui territori da essi governati.
Ebbene si, esistono anche amministratori che condividono tali obiettivi ed operano nel rispetto di essi: obiettivi, verrebbe da dire, di banale etica politica che, poi, banale non lo è, nei fatti.
Manifestazione partecipata e commovente, alla presenza di tantissimi parenti delle vittime di mafia: è stato fin troppo facile, al momento, venirne coinvolti.
Risuonano ancora, sferzanti e taglienti, alcune parole di Don Ciotti: “Non basta commuoversi, bisogna muoversi. Ognuno si assuma la sua parte di responsabilità. E' il momento dei fatti”, e poi la chiara accusa: “Non c'è strage in Italia di cui si conosca la verità”.
Eppure, anche le prime richieste avanzate su quel palco avevano tutta l’apparenza di una sconcertante, e quindi preoccupante, banalità, in un paese realmente democratico: togliere il velo agli ipocriti e sospetti segreti di Stato (ma quale Stato?) che hanno velato i più orrendi crimini, da Moro ad Ustica, da Ilaria Alpi a Brescia ed a Bologna, e così via; approvare in via definitiva, finalmente, i reati contro l’ambiente, che tanto ossigeno rappresentano per le mafie; stroncare, con adeguate revisioni normative, l’arma della prescrizione tuttora in mano a coloro che hanno compiuto i reati più gravi o di stampo mafioso.
Sarebbe un gravissimo errore, tuttavia, confinare la nostra attenzione sulle mafie alle loro manifestazioni delittuose, malavitose ed oggi anche imprenditoriali ed economiche: un errore gravissimo perché, fin troppo facilmente, la maggior parte di noi si sentirebbe estranea e non colpevole, non tenuta a farsene carico.
Non è così, perché il nemico più subdolo, più diffuso (consciamente od inconsciamente) ed in grado di rappresentare il miglior terreno di coltura per le corruzioni e per le mafie, non è la mafia stessa, ma la “mafiosità”.
La mafiosità, tanto per intenderci, è quell’insieme di comportamenti quotidiani che spinge, ad esempio, ad aggirare le regole sostituendole con le furbate; a inseguire l’appuntamento “personale” con l’amministratore pubblico di turno o con il funzionario comunale per ottenere il “favorino”; al “regalino” di cortesia proposto ed accettato; ai controlli addomesticati; ai piccoli appalti senza alcuna trasparenza, tanto sono piccoli; alle multe ritirate; al menefreghismo nei posti di lavoro; ai piccoli atteggiamenti della vita di tutti i giorni che possano testimoniare scarso rispetto per la cosa pubblica o per le altre persone.
Questo radicato fenomeno rappresenta la malattia più difficile e lunga da curare, proprio perché assume le caratteristiche di “cultura diffusa”, negativa ovviamente.
Ma, questa malattia, non dipende da altri, dai Totò Riina o dai Matteo Messina Denaro, dai grandi criminali mafiosi, dipende solo da noi.
Allora, acquistano il loro vero senso le parole di Don Ciotti : “Non basta commuoversi, bisogna muoversi. Ognuno si assuma la sua parte di responsabilità. E' il momento dei fatti”.
Muoviamoci, anche noi elbani.
Paolo Di Pirro