In vista della Conferenza internazionale dei parchi, che si terrà dal 12 al 19 novembre a Sydney La Nuova Ecologia pubblica il dossier “Biodiversità in bilico”, curato da Federica Barbera e con interventi di Piero Genovesi, Umberto Mazzantini, Andrea Monaco, Antonio Nicoletti ed interviste a Valer Giuliano, Thomas Hansson e Giampiero Sammuri, mentre le schede del dossier sono curate da Irene Piccini.
Vi proponiamo l’articolo “Protezione globale” di Umberto Mazzantini, giornalista di greenreport.it, che apre il dossier:
Il mese prossimo Sidney si terrà il Congresso sulle aree protette dell’International Union for Conservation of Nature (Iucn). Fino al 17 ottobre la Corea del Sud ospita la 21esima Conference on Biological Diversity (Cbd), preceduta da quella di Nagoya (che ha preso atto del fallimento dell’obiettivo di arrestare la perdita della biodiversità planetaria entro il 2010) e da quella di Hyderabad del 2012 che ha rilanciato e rafforzato le stesse finalità di proteggere il 17% delle terre emerse del Pianeta. Oggi siamo rispettivamente intorno al 12%, e il 10% dei mari e degli oceani del mondo, siamo a meno del 3-4% con le ultime istituzioni di gigantesche aree marine protette nelle zone economiche esclusive marine dei territori Usa e dei Piccoli Stati insulari del Pacifico.
Due recenti studi internazionali hanno messo in evidenza l’inefficacia a proteggere la rete della biodiversità di piccole aree protette frammentate e istituite secondo bisogni meramente economici/politici e la scarsa corrispondenza dei territori dei Parchi terrestri e marini con i veri hotspots della biodiversità a rischio di estinzione e delle foreste primarie da salvare dalle motoseghe e dell’espansione di infrastrutture e dell’industria mineraria. In tutto questo sembra giocare di sponda eppure siamo il Paese con la maggiore biodiversità in Europa, siamo al centro del Mediterraneo, uno dei punti caldi dell’estinzione di specie, una delle aree più a rischio per i cambiamenti climatici e per l’invasione di specie aliene, abbiamo firmato ogni convenzione, patto, accordo europeo ed internazionale per la salvaguardia dell’ambiente e preso impegni solenni per ampliare le nostre aree protette a mare e a terra e per dar loro una buona governance… Ma i nostri Parchi nazionali non hanno ancora i direttivi insediati, quelli regionali vivono una stagione di tagli ristrettezze ed accorpamenti, le Aree marine protette hanno finanziamenti che sembrano ridicoli se paragonati a quelli della sola Corsica. La legge sulla protezione del Mare risale al remoto 2012, quella quadro sulle Aree Protette all’ormai lontano 1991 e devono essere sicuramente sottoposte ad un’adeguata opera di manutenzione ed aggiornamento rispetto alle novità che ci vengono dal mondo ed all’accelerazione tremenda della perdita di biodiversità, ai cambiamenti climatici catastrofici prodotti da una crescita senza freni e intelligenza, alle specie aliene che hanno invaso anche l’Italia e l’Europa.
Il bilancio della legge 394/91 ci parla di grandi passi avanti iniziali, ma anche di una rete non completata, oppure strappata come nel caso della “provincializzazione” del Parco nazionale dello Stelvio, della mancata istituzione di quello del Delta del Po, dello scandalo della mancata istituzione dell’Area marina protetta dell’Arcipelago Toscano, prevista “solo” da 32 anni. Eppure al Congresso Iucn sulle aree protette di Durban del 2003, il modello italiano era stato portato come esempio della possibilità di far convivere un Paese densamente popolato, industrializzato, con i giacimenti culturali più ricchi del mondo con la tutela e la valorizzazione, anche economica, della biodiversità, degli habitat, dei servizi ecosistemici. Quelle idee sono state declinate, spesso con successo, in altri Paesi, fino a giungere alle aree protette gestite delle comunità indigene che mantengono così i loro mezzi di sussistenza e fanno della natura motivo di distinzione e di arricchimento culturale ed economico. Certo è un processo difficile, a volte contraddittorio, sottoposto ai capricci di questo o quel governo autoritario, con cedimenti rispetto agli appetiti estrattivi, sotto continuo attacco da parte dei bracconieri, ma indicativo di una “guerra” in corso tra due concezioni dello sviluppo: quello della rapina delle risorse, del tutto e subito, e quello della gestione oculata, armonica, resiliente, di lungo periodo della rete della vita della quale facciamo parte.
L’Italia, esempio di equilibrio attivo poco più di 10 anni fa, è in stallo, incapace di adeguare una legge che ha ormai 23 anni e di rendere protagoniste le Comunità del Parco che avrebbero dovuto essere il motore delle Aree protette. Tali aree invece si sono si sono troppo spesso rivelate camere di compensazione politica del territorio, luoghi dove scaricare sull’Ente Parco ritardi atavici, rivelandosi distanti ed incapaci di proposte su tutela del paesaggio, della salvaguardia della biodiversità, del diverso sviluppo, sostenibile e basato sulla valorizzazione delle risorse locali, del quale parla la legge 394/91. Ed anche i Piani dei Parchi troppo spesso si sono rivelati momento di contrattazione invece che strumento di valorizzazione, di esaltazione delle risorse uniche di territori unici, troppo spesso l’unica cosa sulla quale è girata la discussione è se e dove si potesse costruire, la maledizione del cemento/rendita spacciata per progresso locale. E’ poi normale che le Comunità del Parco spesso non ce la facciano ad approvare quei Piani di sviluppo economici e sociali che le nuove proposte di modifica della legge fortunatamente cancellano.
Sembra quasi che la politica nazionale, regionale e locale italiana non sia ancora in grado di parlare il linguaggio ambientale comune in Europa. La Conferenza nazionale sulle aree protette del 2013 ha rimesso i Parchi al centro dello sviluppo sostenibile, li ha indicati nuovamente come territori nei quali sperimentare una green economy che non sia solo cambio di paradigma industriale ed energetico, ma anche occasione per la realizzazione di una nuova economia resilente che abbia al centro la tutela delle risorse e le comunità locali come protagoniste di un nuovo sviluppo a che tuteli territori ed equilibri naturali, sulla scienza, l’innovazione, la cura del vivente e del paesaggio, del buon vivere. Un linguaggio che la politica italiana dovrebbe ricominciare a parlare perché è l’antico linguaggio dimenticato dell’Italia delle meraviglie della natura, della cultura e dell’ingegno umano.