È quello, il silenzioso e schivo mondo dei pastori dell’Elba occidentale; lassù, dove le poiane volteggiano alte, si avvicendarono incerte esistenze fatte di partenze, di speranze, di ritorni. Alcuni vecchi ricordano tuttora il pastore Mamiliano Martorella di San Piero, la sua avventurosa vita spesa nei silenzi del granito, la sua caparbietà, le sue orecchie mutilate dai geli invernali. E ancora il burbero Giuseppe Galli, detto «Beppitto» dallo spagnolo Pepito, il suo nomignolo di nascita in Argentina. E poi il marcianese Oreste Anselmi e il suo piccolo mondo che spaziava dal Monte Giove a Serraventosa, e ancora il sanpierese Danilo Galli e le sue epiche narrazioni sulla pastorizia elbana. Chi ancora oggi sopravvive è l’anziano Evangelista Barsalini, arroccato con le sue affezionate caprette sui monti di San Piero. In quei tempi lontani i pastori allevavano allo stato brado dei branchi di capre che venivano lasciate quasi sempre incustodite, procurando seri danni alla vegetazione spontanea e alle coltivazioni; erano soprattutto voraci di «Cistus creticus eriocephalus», all’Elba non a caso chiamato «mucchio caprino», dai bei fiori viola primaverili. Nel caso di terreni coltivati, il pascolo avveniva ad anni alterni, con la condizione che, durante il periodo di coltivazione, le capre pascolassero soltanto sulle nude vette granitiche; i proprietari dei terreni venivano inoltre ricompensati due volte la settimana con carne di capra. Consuetudine dei pastori era quella di «imbrancare» le capre, cioè di condurle in branco verso la mungitura che avveniva, con l’uso di recipienti detti «mungitoie», all’interno del «caprile», quel recinto in pietra dove esse, notoriamente irrequiete, potevano circolare liberamente. Gli animali più piccoli erano tenuti all’interno di minuscoli recinti, i «caprilini», ben lontani dalle capre adulte, spesso irascibili e pericolose; durante lo svezzamento, i capretti, ai quali era messo in bocca un pezzetto di legno detto «bavello», venivano isolati nei «grìgoli», piccoli anditi in pietra – muniti di copertura – all’interno del «caprile». Durante la mungitura, le capre venivano bloccate una per una da un sistema di «travette» lignee disposte trasversalmente nello stretto ingresso del recinto; era l’antica «numella» dei Latini. All’interno della «capanna» in pietra (nel Sanpierese il nome muta in «grottino»), che spesso presenta l’ingresso rivolto in direzione opposta a quella donde soffiano i venti dominanti, i pastori fabbricavano formaggi e ricotte per mezzo del «colo» (arcaico setaccio), del «caldaro», recipiente in rame appeso sul focolare, e della «rompitoia» (stecca triforcuta di corbezzolo per decompattare il caglio creatosi). Il prodotto era posto in forme di vimini, i «cascini», e, una volta rassodatosi, veniva portato nei paesi in ceste con foglie di felce aquilina (Pteridium aquilinum) tra un formaggio e l’altro. Le qualità delle capre si differenziavano dalle caratteristiche colorazioni del manto; esistevano così le «balzane», dalle zampe bianche, le «bionde», le grigie «canose», le brune «spane», le «muscelline» dal pelo bianco sul labbro superiore, le «cinte da linea bianca sul torace, le «culigie» dal deretano bianco, le «melene» o «malene» dal dorso di diverso colore, le «massellate» con mascelle biancastre e le «occhiate», dagli occhi contornati di bianco. Inoltre, i pastori chiamavano «toricce» o «turicce» le giovani capre ancora non sessualmente mature, in modo identico al còrso «turicce». Bestie fedeli, le capre, più affezionate al padrone che non le pecore; tanto che un proverbio di Corsica recita: «Capre a u patrone, pècure a rughjone», ossia «Capre al padrone, pecore al pascolo».