Un’elegante pianta di montagna, chiamata «sigillo di Salomone» per la forma delle impronte che i fusti lasciano ogni anno sul rizoma sotterraneo, è stata scoperta alle pendici settentrionali del Monte Capanne, nel cuore del Parco Nazionale.
Il ritrovamento, datato al maggio 2007, è dovuto a Silvestre Ferruzzi, architetto e guida ambientale, che lo ha documentato nel libro «Synoptika»; dopo un sopralluogo avvenuto lo scorso aprile, la presenza di «Polygonatum odoratum» – questo il nome scientifico della pianticella – è risultata una novità per la flora dell’Elba dal Dipartimento di Biologia (Unità di Botanica) dell’Università di Pisa, tramite i botanici Lorenzo Peruzzi e Angelino Carta.
Il sigillo di Salomone non era infatti mai stato segnalato all’Elba e nell’Arcipelago Toscano, anche se nel lontano 1808 il naturalista francese Arsenne Thiébaut De Berneaud segnalò per i monti marcianesi una specie dello stesso genere ma profondamente diversa, «Polygonatum verticillatum», la cui presenza sull’isola non è mai stata successivamente confermata. La stazione elbana di «Polygonatum odoratum» si trova a 652 metri di altitudine in un ripido pendio con substrato roccioso ricoperto da scopa (Erica scoparia), scopa da ciocco (Erica arborea), prunella (Genista desoleana), elicriso (Helichrysum italicum), asplenio maggiore (Asplenium onopteris), viola dell’Elba (Viola corsica ilvensis) e zafferano dell’Elba (Crocus ilvensis).
Il sigillo di Salomone è una pianticella delle Liliaceæ con profumati fiori bianchi pendenti da un lungo fusto arcuato, che in autunno si trasformano in bacche nerastre; come si legge nell’«Historia plantarum» del 1651, «nasce nei boschi, in luoghi ombrosi, anche ai margini, non solo in montagna ma anche in pianura. I fiori a maggio e giugno, i frutti si possono raccogliere ad agosto.» La sua radice rizomatosa ha proprietà diuretiche e antidiabetiche, ed essendo ricca di amido veniva mescolata, in Svezia, all’impasto del pane; nel contempo è estremamente velenosa e la sua ingestione, come quella delle bacche, provoca aritmie e ipoglicemia. Anticamente i teneri germogli, ancora privi di tossicità, erano consumati come asparagi sebbene avessero un sapore decisamente amaro. I greci chiamavano questa pianta «polygónaton», ovvero «dai molti angoli» per la struttura del fusto, mentre nel Medioevo veniva detta «stella» e «frassinella»; nel Cinquecento era chiamata «scala del cielo» e «ginocchietto», sempre a causa della forma dei fusti. In alcune zone dell’Italia settentrionale è tuttora nota come «scala del Paradiso» per la disposizione scalare delle foglie. Il medico Dioscoride Pedanio così la descrisse nel I secolo: «Il poligonato cresce sui monti ed è una pianta alta più di un piede, con foglie simili all’alloro ma più ampie e lisce (…). Ad ogni attaccatura delle foglie vi sono fiori bianchi in quantità maggiore delle foglie (…). Ha una radice biancastra, tenera, allungata, con molte grosse giunture, fortemente odorosa, dallo spessore di un dito; è una buona applicazione per le ferite e per togliere le macchie dal viso.» Nel testo medievale dell’«Historia plantarum» si legge che «il succo della sua radice, unito e mescolato con il miele, è utile contro l’offuscamento degli occhi», mentre il medico senese Pietro Andrea Mattioli scrisse nel 1544 che dal rizoma della pianta «fanno l’acqua volentieri le donne per li lisci loro.» Il naturalista francese Louis Bosc, nel 1822, annotò infine che «i maiali amano tanto la sua radice che non ne lasciano neppure un pezzetto.»
Rimane da augurarsi che questa stazione elbana di «Polygonatum odoratum», vero e proprio «unicum» nell’Arcipelago Toscano, resti indenne all’incessante pascolo dei mufloni e alle disastrose escavazioni dei cinghiali che oggi popolano il prezioso comprensorio del Monte Capanne.
Silvestre Ferruzzi