Aldo Cazzullo ha scritto che in attesa del dimezzamento dei parlamentari una categoria di fatto è già sparita dal parlamento; gli ecologisti. Questa discussione con il suo carico di polemiche ha riguardato in particolare la scelta dei candidati del Pd per la esclusione di alcuni parlamentari ambientalisti ‘storici’.
Cazzullo rileva criticamente che questa assenza non riguarda altri paesi dalla Germania alla Francia dove i ‘verdi’ sono presenti e raccolgono voti a due cifre.
Ma da noi i verdi come sappiamo sono spariti già da tempo tanto che la rappresentanza ‘ecologista’ in parlamento come nelle altre istituzioni la si deve cercare soprattutto nel centro sinistra dove si trova ‘etichettata’ principalmente come ecodem o Sel.
Ma proprio questa differenza tra il nostro paese e altre realtà europee richiede una riflessione che finora è mancata sulle ragioni per cui, pur in presenza di non pochi movimenti e associazioni impegnati in difesa dell’ambiente, del paesaggio, del suolo, della natura –vedi l’ultimo appello del Comitato per la bellezza- che confermano una diffusa consapevolezza culturale e civica nel paese, questa non riesce a far breccia significativamente nel reticolo istituzionale e politico. In molti abbiamo rilevato criticamente, ad esempio, che questi temi anche nel vivacissimo e appassionato confronto politico nel centro sinistra sulla scelta del capo del governo e poi per le primarie hanno a fatica fatto capolino.
Una delle cause, credo, di questo grave e persistente ritardo e difficoltà delle forze politiche e quindi delle istituzioni a immettere nel governo del territorio e dei beni comuni aspetti che richiedono nuove conoscenze e competenze culturali, normative e operative oltre che ovviamente risorse, sia da ricercarsi nella perdurante concezione che vuole l’ambiente di fatto separato dal resto. Un qualche cosa appunto che richiede anche in parlamento come nelle regioni e negli enti locali specifici rappresentanti ed esperti; nel caso del Pd –ad esempio-con griffa ecodem. Va sottolineato perché ciò non ha eguali riscontri per nessuna altra ‘specificità’ -pur indispensabile in ambito parlamentare e istituzionale- che sia ad esempio giuridica o sociale perché esse stanno comunque all’interno di una governance unica.
Non possiamo dimenticare che fino a pochi anni fa per gli assessorati all’ambiente nelle regioni e negli enti locali ma anche per il ministero dell’ambiente la scelta quasi obbligata ricadeva su un verde. Verde in sostanza voleva dire ambiente come prerogativa di esclusività che ha concorso ad accentuarne la sua separatezza di cui stiamo pagando oggi un conto salato.
E in questa separatezza l’ambiente sul fronte istituzionale e politico oltre che culturale, è restato ai margini delle politiche di governo anche in ambiti ove operano leggi importanti come sul suolo, la natura e il paesaggio. Hanno dilagato di contro le politiche dei condoni, dei piani casa, della speculazione, degli intrallazzi che hanno divelto tutti i tentativi di pianificazione e programmazione pur previsti dalla costituzione.
E’ così fallito il tentativo del titolo V di mettere finalmente in rete su un piano di pari dignità stato, regioni ed enti locali perché in ‘leale collaborazione’ potessero finalmente passare dalla conflittualità permanente ad un governo del territorio in cui tutti i livelli potessero concorrere a nuove politiche nazionali sempre più correlate e integrate con quelle comunitarie.
Qui si incrociano però con il ritardo politico istituzionale che non risparmia nessun livello, dallo stato alla dimensione locale, una persistente debolezza e comunque sottovalutazione dell’ambientalismo nella sua configurazione complessiva e multiforme a cogliere la portata e i caratteri del ritardo e delle responsabilità istituzionali. Anche in taluni degli appelli più recenti, ad esempio, l’accento è posto sulle innegabili responsabilità, ad esempio, dei comuni che per far cassa non esitano a cedere alla cementificazione più selvaggia. Accusa che si ripete sul paesaggio alle regioni ed anche agli enti locali per voler fare quello che compete allo stato. Se ne arguisce che quel che serve ed urge è innanzitutto il ripristino delle competenze primarie e spesso esclusive della stato. Vedi l’approdo sul titolo V che dovrebbe essere rivisto proprio in questo senso lasciando perdere illusioni federaliste che hanno già fatto fin troppi danni.
Quello che in realtà è fallito clamorosamente prima ancora che la ripartizione delle competenze è l’incapacità in primo luogo dello stato di gestire le sue –che sono molte e determinanti- all’insegna non di un centralismo che ha fatto ormai il suo tempo ma di quelle esigenze di programmazione nazionale il cui ultimo tentativo risale a Ciampi.
Qui gli esempi che si possono portare sono fin troppi, basta pensare a uno degli ultimi e cioè a quella legge approvata dal Senato di riforma della 394 sui parchi e le aree protette dove dopo più di 20 anni si vorrebbe riaffermare sulle aree protette marine la sola competenza dello stato. Legge gravissima in sé ma resa ancor più sconcertante dal sostegno assicurato proprio da quegli ambientalisti ‘storici’ di cui si è denunciata la esclusione dalle candidature del Pd.
La conclusione di questa riflessione è semplice; oggi non serve –anzi aggraverebbe ulteriormente le cose- riaprire una diatriba su come ripartire le competenze magari per premiare lo stato più inadempiente d’Europa, ma come riuscire a sintonizzare responsabilità e ruoli del sistema istituzionale in ambito ambientale. Avendo ben chiaro che per questo non basta avviare finalmente la green economy che attiene comunque alla economia che da sola non può regolare le politiche e le scelte che attengono alla bellezza e al ruolo dei beni comuni.
Renzo Moschini