Nel dibattito su paesaggio e cemento non mancano certo i dati drammatici che non risparmiano nessuna regione sul consumo rovinoso del territorio. Nè sui costi umani, sociali e finanziari dovuti ad una mancata prevenzione nella difesa del suolo da alluvioni, frane e altri disastri. Alle note personalità che al tema hanno dedicato e dedicano importanti libri e ricerche sono andati via via aggiungendosi associazioni ambientaliste, Comitati, Forum e cittadini che avevano promosso il referendum sull’acqua e i beni comuni. In qualche caso alle denunce e critiche che non risparmiano nessuno si accompagnano anche importanti proposte su come uscirne a partire da questo aggrovigliatissimo sistema normativo che dovrebbe regolarne la regia a cominciare dalle sedi ministeriali e da lì giù giù per li rami. Da poco a queste diverse voci se ne sono aggiunte altre molto autorevoli che mirano a costituire qualcosa che si dice non è un partito ma stando a talune dichiarazioni riportate, ad esempio, in un articolo ’Il partito dei beni comuni’ su il manifesto di Ugo Mattei autore di un libro recente sul tema, gli somiglia per più versi richiamando anche una operazione nazionale -protagonisti alcuni sindaci di grandi città- che le cozze pelose sembrano avere però affondato.
Quel che è sicuro è che questi temi riconducibili ad aspetti fondamentali e irrimandabili delle politiche ambientali non possono non coinvolgere ormai le istituzioni e le forze politiche che mostrano tuttora nel loro complesso non poche difficoltà e spesso imbarazzo ad uscire sempre più allo scoperto. E tuttavia c’è qui un passaggio cruciale che richiede più di quanto sia finora avvenuto di unire alla denuncia proposte anche normative sulle quali o è calata la tela o permangono non poche ambiguità. E se vogliamo evitare come raccomanda giustamente Stefano Rodotà di inflazionare taluni termini appunto come beni comuni sarà bene cercare di capire cosa significa uscire dal dilemma ormai stantio pubblico- privato e prendere atto che vi è oggi una nuova dimensione che non si identifica unicamente nell’equilibrio tra questi due ambiti. Vi è insomma un’area nuova non riconducibile unicamente all’una o all’altra parte.
Un punto di partenza come sottolinea anche un recente documento del Gruppo 183 che si richiama appunto alla legge sul suolo, potrebbe essere quello posto più volte anche Salvatore Settis della esigenza di unificare innanzitutto i ministeri dell’ambiente e dei Beni culturali. In effetti tenere distinti questi binari ha poco senso e consente ad entrambi di eludere questioni e una gestione non separata né separabile dal resto come quella del paesaggio. Qui però la giusta critica di Settis all’attuale gestione separata dei due ministeri rivela qualche limite come l’aver previsto con il nuovo Codice un ritorno puro e semplice ad un ruolo delle Sopraintendenze confinando le regioni in un ruolo subalterno come le stesse regioni recentemente hanno avuto modo di evidenziare in un ‘Documento sulle problematiche aperte sulla pianificazione paesaggistica regionale’ chiedendo l’apertura di un tavolo di confronto con il Ministero dei beni culturali. Le Regioni considerano la situazione della pianificazione e gestione del paesaggio per molti versi preoccupante. A tutt’oggi, infatti, l’elaborazione congiunta dei piani paesaggistici tra Ministero e Regioni, nelle forme previste dall'art. 143, non ha prodotto alcun concreto risultato. Le recenti modifiche legislative introdotte dal d.l. 70/2011 al codice ha accresciuto le preoccupazioni delle Regioni sul futuro della pianificazione paesaggistica e sull’attività di controllo e gestione dei beni soggetti a tutela. Ci si riferisce ai termini raddoppiati per l’espressione del parere delle Soprintendenze e poi il raddoppio dei termini per la verifica ministeriale etc. Le Regioni insistono inoltre sulla esigenza che si tenga in maggior conto della condivisione a livello locale delle scelte effettuate dalla attività di pianificazione paesaggistica. E qui va annotato il silenzio delle stesse regioni su un punto decisivo al riguardo e cioè l’aver il nuovo Codice sottratto al piano dei parchi proprio il paesaggio dimenticando che la legge 394 fa esplicito riferimento all’art 9. Si assiste così ad un vero e proprio ritorno centralistico di cui è un altro fresco esempio in Codice sul turismo di cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimi mi pare- ben 18 articoli. Se passiamo poi all’altro ministero quello dell’Ambiente e del Mare il quadro è se possibile anche più sconfortante. Qui è venuta meno nel silenzio pressoché generale qualsiasi cabina di regia da oltre un decennio. Ed è stato ed è tale il disimpegno dei ministri che si sono susseguiti negli ultimi anni ma anche del parlamento che persino la legge attualmente in discussione al Senato che infliggerebbe serie penalizzazioni alla 394
manco accenna a queste questioni.
Altro che federalismo. La mortificazione dei ruoli e delle competenze regionali e locali che accresce il ruolo burocratico ministeriale non si fa carico neppure al centro di quelle esigenze di raccordo, di concertazione e collaborazione senza i quali anche la nostra presenza comunitaria risulta indebolita e impoverita.