Faccio parte della generazione che ha scoperto la militanza ambientalista perché aveva una visione: far nascere un parco nel territorio in cui viveva nella convinzione che, l’area protetta, sarebbe stata l’occasione per tutelare meglio la natura, valorizzare il territorio e rendere consapevole la propria comunità del patrimonio di biodiversità che custodiva e che avrebbe tratto benefici pratici da questa scelta.
Per raggiungere lo scopo ho applicato il “metodo legambientino” del fare le cose bene per ottenere risultati duraturi, con il supporto della conoscenza e la passione, mescolata alle competenze tecniche e al “corpo a corpo” ingaggiato con il territorio. Una pratica che, applicata a larga scala da tanti di noi, ha favorito la crescita del consenso che mancava all’inizio di ogni percorso ed ha permesso di vincere la sfida dell’area protetta condivisa e coerente con gli obiettivi di conservare la natura e rendere efficace lo strumento dell’area protetta.
Un metodo sperimentato e affinato in questi 30 anni dall’Arcipelago Toscano ai Sibillini, per passare dall’Appennino Tosco Emiliano alla Sila o alla Val d’Agri, che ha creato alleanze soprattutto con chi non era in linea con l’idea del parco, pescatori e agricoltori in primis, e cementato amicizie con sindaci e comunità locali che fatto bene alla nascita dei parchi e delle aree marine protette e favorito la crescita di Legambiente in contesto, le politiche per le aree protette, fortemente presidiato da altre sigle ambientaliste storiche.
I parchi sono stati terreno di confronto tra diverse visioni tra gli ambientalisti, e l’approvazione della legge quadro sulle aree protette (394/91) è stato lo spartiacque tra diverse culture che ancora oggi si confrontano e/o si scontrano. La legge ha favorito la nascita di un sistema di aree protette diffuso sul territorio, ha aperto ai territori e alla pratica democratica della partecipazione gli enti gestori, ed ha offerto opportunità e protagonismo alle comunità locali, ai ricercatori, alle imprese ma anche agli ambientalisti.
Ma non tutti hanno voluto o saputo cogliere questa opportunità. Legambiente ha fin dall’inizio appoggiato la legge e lavorato per la sua affermazione, ed ha impegnato tutta la rete associativa per favorire una visione della conservazione della natura meno elitaria rispetto a quella fino ad allora dominante. Grazie alle 394/91, Legambiente ha saputo esprimere un ambientalismo di territorio e una visione popolare e partecipata della tutela della natura, poiché la legge richiedeva una co-partecipazione dei territori e delle comunità locali alla istituzione e gestione delle aree protette. Un percorso complesso che noi abbiamo sempre deciso di affrontare, ben sapendo dei limiti e delle contraddizioni che emergevano lungo il cammino per l’affermazione dei parchi cercando di regolare e conciliare efficacemente la visione dello sviluppo locale che si sostanzia grazie alla conservazione della natura. Il nostro ambientalismo, che ha un “DNA” radicato nei territori, ci ha permesso di gestire le contraddizioni e rimanere coerenti nella pratica del parco che diventa un player del territorio e non una zavorra.
La legge 394 ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita dei territori da proteggere, che sono passati dal 3 a oltre l’11%, ma non sempre è stato raggiunto l’equilibrio migliore tra il perimetro del parco approvato e la necessità di tutela che un territorio esprimeva. In molti casi si è riusciti nella migliore composizione possibile tra i diversi interessi, in altri più che la cultura tecnica ha prevalso la proposta di parco che l’accettazione sociale riusciva a far prevalere.
Possiamo ricordare i fallimenti del mancato avvio di troppi parchi e aree marine protette in attesa di nascere, ma vale la pena ricordare i tanti successi raggiunti anche grazie al contributo della nostra rete associativa diffusa sul territorio, i circoli ed i regionali, che con il supporto della conoscenza tecnica e l’azione politica locale hanno permesso di vincere tante sfide e sarà grazie anche al loro supporto che si potrà raggiungere l’obiettivo di tutelare il 30% del territorio e del mare entro il 2030 istituendo nuovi parchi, riserve e aree marine protette su tutto il territorio nazionale.
Il nostro è un ambientalismo di territorio con una visione popolare e partecipata della conservazione della natura, capace di alimentare il conflitto ma anche di trovare le soluzioni. Che ascolta le esigenze delle comunità locali canalizzandole però in un processo di sostenibilità e di visione condivisa del futuro. In sostanza, è l’impegno e la determinazione a spostare l’asticella sempre un po’ più in alto, convinti che soltanto se si parte bene si riesce a migliorare la corsa per poi tagliare il traguardo.
Senza il corpo a corpo territoriale, la sana gestione dei conflitti e la consapevolezza di dover coinvolgere positivamente le comunità, i risultati non si sarebbero ottenuti e difficilmente si ottengono in futuro. Semplicemente perché le soluzioni calate dall’alto non hanno il necessario consenso delle comunità non coinvolte che, seppur non hanno il diritto di veto, hanno la possibilità di frenare i processi anziché offrire un contributo fattivo. Dipende da noi, soprattutto da noi ambientalisti, decidere se l’obiettivo del 30% di aree protette lo vogliamo raggiungere oppure solo rivendicare.
Legambiente non ha mai considerato le comunità locali alla stregua di quelle indigene da confondere con il luccichio delle perline, ma abbiamo operato per convincere e rendere consapevoli tutti del valore delle aree protette. L’esempio del Gennargentu, e delle altre aree protette rimaste ancora nel limbo, sono casi emblematici di questa teoria.
Legambiente ha saputo adattarsi alla novità della 394/91 perché la filosofia di base di questa legge contiene un approccio culturale coerente con quello della nostra associazione, che nell’agire concreto ha invertito il paradigma facendo prevalere il criterio bottom-up anziché politiche imposte dall’alto. Abbiamo sempre accompagnato la crescita del sistema nazionale delle aree protette, che si imponeva con la legge quadro, nella speranza di far crescere nel Paese l’idea che un parco, oltre a conservare la natura, fosse uno strumento utile per la crescita anche economica e culturale delle comunità locali, un’occasione di riscoperta, valorizzazione, riscatto e orgoglio territoriale.
Un approccio culturale e politico arricchito nel tempo. Che ha fatto crescere Legambiente come soggetto credibile anche perché capace di “convincere” le comunità territoriali a investire nell’istituzione di un parco o di una riserva, come un vero e proprio asset di sviluppo locale e strategia per ridurre l’impatto del clima sui territori. Si tratti del Parco nazionale del Matese o dell’Area marina protetta della Costa di Maratea, Legambiente è presente e si mobilita per raggiungere il miglior risultato. Abbiamo sempre lavorato per far crescere la qualità e la quantità delle aree protette italiane, ma senza mai nascondere i limiti di gestioni delle aree protette in molti casi inadeguate che hanno trasformato l’opportunità offerta dalle aree protette in una zavorra per i territori interessati. Un caso su tutti la scandalosa gestione del Parco nazionale della Val d’Agri e Lagonegrese che solo noi abbiamo denunciato alla magistratura, e poi tutti (ministero e corte dei conti) hanno dovuto prenderne atto. La cattiva gestione delle aree protette è spreco che non possiamo davvero permetterci, soprattutto dopo i primi trent’anni di legge 394/91 e in previsione dell’obiettivo di creare nuove aree protette terrestri e marine per migliorare gli ecosistemi e frenare la crisi climatica.
Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette e biodiversità di Legambiente