“Laudato si', mi' Signore, per sor'acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”. Inutile dire che questo è un verso della più mirabile celebrazione della natura mai composta dall'umanità: il Cantico delle creature di san Francesco. Perché cito un testo duecentesco dovendo parlare di futuro idrico elbano? Lo vedremo in conclusione del capitolo.
Nella seconda parte abbiamo visto che noi elbani, in una manciata di anni, ci siamo giocati malissimo le nostre riserve idriche, passando dall'autosufficienza alla carenza. Adesso dobbiamo metterci una pezza. Ma come? Sono due le soluzioni che si sono prospettate negli ultimi anni: invasi di raccolta delle acque e un dissalatore. Sono argomenti di cui si è discusso fino alla nausea, e quindi cercherò di parlarne in un'ottica generale, senza dilungarmi nei particolari, anche perché non ho competenze tecniche per trattarli scientificamente.
Lasciamo perdere, per carità di patria, soluzioni nonsense e costose, come il raddoppio della condotta sottomarina. La questione è che siamo attaccati a un rubinetto che ormai gocciola: puoi attaccarci due tubi, ma continuerà a gocciolare. Piuttosto non dimentichiamoci che questa proposta fantasiosa arriva da quelle amministrazioni elbane che, come abbiamo visto nella parte precedente, hanno in gran parte creato il problema idrico elbano con scriteriate politiche di consumo delle risorse. La politica locale, prima di tutto, dovrebbe mostrare più serietà e cambiare paradigma sulla gestione del territorio, invece di spacciare proverbiali oli di serpente.
Tornando alle due soluzioni serie, sottolineamo innanzitutto che sono antitetiche: la prima parte dal presupposto di sfruttare un'acqua che sull'isola ci sarebbe, la seconda sostanzialmente dal crearla. È questa la discriminante principale. E non è una cosa da poco.
Per quanto riguarda il dissalatore, va detto che il rapporto costi/benefici, alla prova delle evidenze scientifiche, va a favore dei secondi. È vero che esiste una criticità: la cosiddetta salamoia, ovvero lo scarto di produzione, uno scarico fortemente salinizzato che potrebbe alterare la vita animale e vegetale del fondale in prossimità del condotto di uscita. Ma occorre anche essere realisti: attualmente i dissalatori a osmosi inversa sono l'unica soluzione che la scienza tecnologica ci dà per risolvere una crisi idrica, nonché la meno impattante sull'ecosistema. E questo lo riportano anche i paper scientifici che evidenziano le criticità di questa tecnologia. Solo che i detrattori del dissalatore si guardano bene dal citare le parti di tali documenti non funzionali alla loro narrazione.
Forse in futuro troveremo soluzioni migliori. Ma il tempo stringe, e per adesso, come suolsi dire, dobbiamo giocare con le carte che abbiamo in mano. Se cerchiamo la tecnologia in grado di assicurarci solo benefici e nessun costo non andiamo da nessuna parte. Il progresso tecnologico dell'umanità non ha mai mirato alla perfezione, bensì alla soluzione dalla resa migliore. Altrimenti saremmo ancora fermi all'invenzione della ruota.
Mettiamo invece la questione degli invasi alla prova dei fatti.
Gli invasi come collettori di acqua per la pubblica utilità presentano più criticità in un rapporto costi/benefici. Di per sé sarebbero validi, anche per alimentare grossi agglomerati urbani, ma solo a patto di essere alimentati da abbondanti acque perenni. E questo non è il caso dell'Elba. Secondo una corrente di pensiero però basterebbe sfruttare l'attività stagionale dei fossi, realizzando diversi invasi nelle valli principali dell'isola.
Secondo i dati dell'Autorità idrica della Toscana, all'Elba ci sarebbero potenzialmente ben 36 milioni di metri cubi annui di acqua, in gran parte pioggia che va persa per ruscellamento: basterebbe quindi intercettarne almeno un quarto per risolvere il problema idrico.
Tralasciamo il costo economico non indifferente di tali opere, l'impatto ambientale e paesaggistico che avrebbe su vallate spesso incontaminate e di grande rilievo ecologico, i rischi idrogeologici, soprattutto quelli legati alla sicurezza delle località che sorgono allo sbocco di tali valli, e altre non secondarie questioni, che richiederebbero approfondimenti puntuali, caso per caso. Limitiamoci a una questione puramente funzionale. E qui il problema si fa veramente grosso.
Come abbiamo visto nella seconda parte del capitolo, negli ultimi anni l'attività dei fossi elbani è drasticamente calata, in quanto le loro sorgenti sono state pressoché tutte intubate, e la loro portata è rimasta condizionata al solo apporto delle piogge. E qui entra in gioco l'ultima devastante novità: la crisi climatica, che ci sta condannando a periodi sempre più lunghi di siccità, con piogge sempre più rarefatte, da una parte, e un rischio accresciuto di precipitazioni di estrema intensità e brevissima durata, dall'altro. Ed è un problema globale che si va aggravando anno dopo anno: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, entro il 2030 i cambiamenti climatici porteranno a una carenza idrica naturale, che riguarderà il 40% della popolazione mondiale (attualmente riguarda il 20%): stiamo parlando di quasi tre miliardi e mezzo di persone (tra cui potremmo esserci anche noi elbani: non diamo, come al solito, per scontato che il problema riguardi altre parti del pianeta) che faranno fatica ad accedere a riserve idriche.
Contare sugli invasi significa puntare su una riserva d'acqua che è tutto fuorché calcolabile in termini matematici, o affidabile nella prospettiva climatica prossima ventura. Si tratta di una scommessa dai costi economici gravi: può essere vincente se l'anno è sufficientemente piovoso; ma può rivelarsi drammaticamente deficitaria, con la situazione climatica che va sempre più a pallino.
Ma l'aspetto su cui è forse più importante soffermarsi è quello legato a un miglior consumo, razionalizzazione e contenimento degli sprechi. Cioè dal suddetto cambio di paradigma culturale, che ci chiama tutti in causa.
Tralasciamo il tema (serio, sia chiaro) delle perdite di condotta, poichè attiene alla pura gestione infrastrutturale. Concentriamoci sulla riduzione degli sprechi e del superfluo. Partendo da una dismissione e ripristino del suolo di quei crimini ecologici e idrovori che sono le piscine.
Non si possono più rilasciare licenze di questo tipo, e si devono incentivare i privati a toglierle. Il consumo del suolo inoltre va di pari passo con quello dell'acqua: continuare una scriteriata politica edilizia non connessa ad alcuna esigenza abitativa porta a un consumo spropositato di acqua, sia in fase di costruzione di case che di cattivo utilizzo: per riempire cisterne sottoutilizzate buona parte dell'anno, o per la gestione di giardini di ville stagionali, in cui i proprietari magari pretendono il prato all'inglese (ma se lo chiedono, questi fenomeni, perché si chiama all'inglese e non alla mediterranea?), altra idrovora in quanto a consumi. Lo abbiamo visto nella parte precedente: proprio negli anni in cui ci siamo sbracati in frivolezze borghesi le riserve idriche dell'isola hanno iniziato ad andare a pallino.
Ecco perché la lode francescana all'acqua, con i suoi otto secoli, è più moderna dei modelli di sviluppo seguiti oggi da una politica locale incolta ed elettoralistica. Una società che si è dimenticata che se la nostra isola ha avuto una storia così ricca e importante, lo dobbiamo certamente a fattori quali il ferro e la posizione strategica, ma, come abbiamo visto, anche all'umile acqua. Se i nostri avi ci hanno lasciato in eredità una ricchezza culturale così straordinaria lo dobbiamo all'importanza che tributavano alle riserve idriche.
Andrea Galassi