Forse è colpa nostra. Negli ultimi anni si è parlato spesso (troppo) dei parchi italiani come elementi di valorizzazione di aspetti non sempre connessi alla salvaguardia della biodiversità. La stessa Federparchi ha lavorato a lungo, con determinazione, per dimostrare che le aree protette non sono realtà isolate dal resto del territorio, dal tessuto economico e sociale. In questo sforzo di sdoganamento, finalizzato a dimostrare che un parco può non essere un freno per lo sviluppo, le tematiche economiche hanno probabilmente prevalso sul concetto di conservazione e tutela della biodiversità. Inducendo qualcuno all’errore.
Ne è dimostrazione l’articolo uscito questa mattina (ieri 28 marzo ndr) sulle pagine toscane de La Repubblica a firma di Mauro Neri (titolo: “La bellezza tradita dei Parchi, natura usata come bancomat – Tre gioielli naturali costano 20 milioni e rendono briciole”); un autentico ceffone, un danno d’immagine enorme, un attacco ingiustificato, dove si parte da convinzioni errate e fatti particolari per giungere a conclusioni generali. Ovviamente negative. Fa male leggere quell’articolo per chi, in questo ambito, ha speso la proprio vita.
Ma andiamo per ordine. Prima di entrare nel merito delle affermazioni fatte sui parchi toscani forse è opportuno rispondere a due domande:
1) a cosa servono i parchi?
2) Perché vengono istituiti?
I parchi – per chi non lo sa – sono l’unica forma di gestione territoriale che è presente in tutto il mondo. Ci sono Stati dove non esistono le regioni, le province, i comuni, dove non esiste la democrazia o un parlamento, ma i parchi sì. Quelli ci sono ovunque. In Occidente, nei paesi emergenti come nel terzo e nel quarto mondo. E ovunque i parchi sono sostenuti da finanziamenti pubblici. Mai ho avuto riscontri su parchi autosufficienti. Non esistono da nessuna parte. Esistono invece parchi che possono avere degli introiti interessanti e che possono quindi alleggerire il finanziamento pubblico.
Ma perché si fanno i parchi? A cosa servono? Nel mondo i parchi si istituiscono per conservare la natura o – come si dice in termini più tecnici e moderni – la biodiversità. E’ biodiversità la foresta amazzonica, gli ultimi leoni asiatici in India, le savane africane, la tigre siberiana e l’Orso polare, le barriere coralline australiane e quelle del Mar Rosso; in Italia gli orsi marsicani, le praterie alpine, le foreste della Sila, gli endemismi vegetali dell’Etna.
Che i parchi a questo servono non lo dice Federparchi. E’ scritto negli accordi internazionali firmati praticamente da tutti i paesi del mondo, a partire dalla convenzione per la diversità biologica stipulata a Rio de Janeiro nel 1992. Ma la conservazione della biodiversità non ha solo le ovvie implicazione di carattere etico e culturale. Come dimostrano fior di studi fatti negli ultimi venti anni la biodiversità possiede un valore economico chiaro e quantificabile. È per questo che in alcune parti del mondo alcune società finanziare stanno acquistando i diritti sui cosiddetti servizi ecosistemici all’interno delle aree protette. Il prossimo congresso mondiale dei parchi che si terrà a Sidney – a novembre del 2014 – ha proprio come tema la relazione tra conservazione della biodiversità, il suo valore e lo sviluppo economico.
Fatta questa premessa, forse un po’ didattica ma doverosa per inquadrare il problema, veniamo ai parchi regionali toscani e al giudizio che dobbiamo dare sul loro operato.
Per un’analisi obbiettiva bisogna partire prima dai risultati e poi valutare se i risultati ottenuti sono coerenti con le risorse investite. La prima cosa da valutare, totalmente ignorata nell’articolo, sono i risultati ottenuti sulla conservazione della biodiversità, che risultano molto buoni, in alcuni casi strepitosi. Faccio solo un esempio: la reintroduzione del Falco pescatore avvenuta nel parco della Maremma. Questa specie si era estinta come nidificante in Italia nel 1969; 42 anni dopo – nel 2011 – c’è stata la prima nuova nidificazione proprio in Maremma, all’interno dell’area protetta. Deposizione e schiusa delle uova che si è ripetuta nel 2012, nel 2013 e di nuovo quest’anno. Il progetto – realizzato in collaborazione con il parco regionale della Corsica – è costato veramente un’inezia rispetto a progetti analoghi fatti su altre specie in Italia e nel mondo e in molti casi falliti. Ci hanno lavorato tecnici, guardaparco, professionisti esterni e università.
L’impressione, insomma, è che nell’articolo si confonda la vera finalità dei parchi con quelle di soggetti economici obbligati a fare economie turistiche. Non è così. Insisto: mentre si promuovevano miele e vini, itinerari e strutture ricettive, in Toscana sono stati portati avanti progetti di conservazione di fondamentale importanza per la biodiversità. I tre parchi non hanno mai arretrato di un metro sul fronte della tutela, mantenendo una serie di norme di salvaguardia sulle quali oggi si fonda e si costruisce la ricchezza delle attività indotte.
Sono 100 milioni all’anno le presenze turistiche nei parchi italiani (rapporto Ecotour – ISTAT 2013) e anche di questo forse bisogna tener conto nel giudizio sulle attività dei parchi. Che poi quest’ultimi debbano puntare, soprattutto in un momento come questo, a massimizzare le entrate proprie e la propria efficienza lo trovo condivisibile.
Non condivisibile, anzi profondamente ingiusto, è definire i parchi toscani “carrozzoni”. Così facendo l’articolista ignora che i presidenti dei 3 parchi regionali toscani (3 e non 24 come in Lombardia e Piemonte) sono gli unici d’Italia che non percepiscono un’indennità di carica. Secondo noi questo è addirittura un errore e non trova giustificazioni di carattere economico. Il presidente di un parco coordina e presiede il direttivo, detta gli indirizzi, ha l’onere della rappresentanza legale, incontra le categorie, le organizzazioni territoriali. E’ l’interlocutore della Comunità del parco. Di recente, solo per fare degli spiacevoli esempi, presidenti di parco hanno ricevuto avvisi di garanzia per omicidio colposo (per morti avvenute all’interno delle aree protette), oppure minacce di morte (buste con proiettili). Per questo crediamo che una modesta indennità (inferiore alla retribuzione di un usciere) sia, come nel resto d’Italia un giusto riconoscimento al ruolo.
Interessante anche dare un’occhiata ai numeri, di cui non bisogna aver paura. In Toscana, regione-simbolo nel mondo per qualità del paesaggio, natura, mare, abbiamo solo 3 parchi regionali (in altre regioni, come detto, sono diecine, alcuni di 200 ettari). La somma delle indennità per i 3 presidenti di Maremma, Apuane e San Rossore ammonterebbe in totale (ma non la percepiscono da due anni..) a circa 48 mila euro lordi all’anno. I dipendenti dei tre parchi regionali risultano 97: 50 San Rossore, 23 Apuane, 24 Maremma. In media ogni dipendente costa agli enti 40 mila euro. Domando: come si fa a parlare di carrozzoni?
Mi sono lasciato prendere la mano. Adesso chiudo raccontando l’esperienza dei parchi liguri. La Liguria, si sa, è per antonomasia e per cultura una regione molto attenta ai costi. Qui i parchi regionali sono 6 e a fine 2012, sulla spinta della solita spending-review il consiglio regionale abbozzò una legge che prevedeva lo scioglimento dei 6 enti parco e l’accorpamento in un’unica struttura regionale, con sede a Genova. Su questo provvedimento, da diverse parti, Federparchi in testa, si registrarono critiche, sottolineando la non economicità della proposta. Ebbene, dopo aver ottenuto dalla Regione Liguria, l’insediamento di un commissione tecnica per valutare approfonditamente il taglio in questione, nel luglio 2013 è stato ammesso l’errore e il consiglio regionale – resosi conto della non economicità del provvedimento – all’unanimità (maggioranza e opposizione) ha deciso di mantenere gli enti parco. Ci piacerebbe molto mettere a punto lo stesso studio – cioè un bilancio di sostenibilità dei parchi – anche in Toscana. Così facendo discuteremmo e scriveremmo di cose concrete. Federparchi, ripeto, non si sottrae al confronto. Si può migliorare ed economizzare sulla gestione, ma aggredire e destabilizzare in nome delle economie è come buttare il bambino con l’acqua sporca…
da Greenreport