Lo Sport come elemento d’inclusione e cioè la possibilità di garantire a tutte le persone di partecipare a un’attività sportiva in modo sicuro, equo e rispettoso. Equo, rispettoso e sicuro, tre parole che ormai da più di tre mesi mi risuonano nella testa alla ricerca di uno spazio condiviso dalla certezza che possano essere applicate. Invece, quelle stesse parole sembrano sgusciare via dalle pagine dei vocabolari di chi dovrebbe garantirle, nella consapevolezza, ormai da tempo immemore, che nella ridente cittadina di Portoferraio a tutto questo non venga data la giusta considerazione.
Tralasciando la paradossale situazione dell’impianto di San Giovanni, dove in due giorni avrebbero dovuto sostituire il tendone, ma che in realtà ha comportato per le associazioni sportive un adattamento quasi mensile verso altre strutture, chiedendo favori e aiuti impensabili, quello che mi lascia perplesso è la gestione di una situazione strutturale degli impianti alquanto bislacca, caricata a forza sulle spalle delle associazioni, che mi porta a pensare a una concezione di sport totalmente sbagliata. Da qui nasce la consapevolezza di un’attenzione diversa, di una considerazione di bambini di serie A e serie B, di atleti maggiori e minori, di società strutturate e degne di rispetto a discapito di satelliti minori che gli ruotano intorno senza avere la stessa considerazione.
Analizzando questi pensieri non trovo riscontro in quelle tre parole e la disparità evidente di bambini che ruotano in società più strutturate, le quali godono della mia stima perché con grande dedizione e sacrificio si dedicano allo sviluppo dello sport riuscendovi in pieno, che possono permettersi di allenarsi con costanza, avendo gli spazi, e possono ogni inizio e fine allenamento spogliarsi in uno spogliatoio accogliente e fare una doccia calda prima di ritornare a casa, mi rattrista.
Mi rattrista pensare che nel paese emancipato, che spesso si assurge a “capitale” elbana, esistono realtà in cui bambini di 7 anni si spogliano in un tendone freddo, su sedie azzeccate alla “carlona”, sporche, spesso rotte, poiché gli spogliatoi sono indecorosi, perdono intonaco dai muri, dal tetto, sono privi di riscaldamento, dove le docce malmesse erogano solo acqua gelida. E sono gli stessi che quando vanno a gareggiare si ritrovano nelle identiche condizioni, con gli spogliatoi leggermente puliti solo grazie al lavoro pre-gara degli allenatori o al volontariato dei genitori, ma ancora una volta al freddo e senza la possibilità di fare la doccia. Ed è così, in questo clima in cui lo sport viene praticato solo grazie all’amore e alla passione di tutti, che i ragazzi devono lavarsi utilizzando la “tira” con l’acqua gelida, che fioccano le multe per carenza funzionale degli spogliatoi, che le società avversarie ti chiamino informandoti che non manderanno a giocare i propri atleti se non sarà garantita loro una doccia calda. E come dargli torto? E sarebbe questa l’inclusione sportiva? E allora via con il telefono in mano per tutta la settimana nella speranza che qualche anima pia ci dia un segnale di benedizione affinché arrivi il gasolio, che lo spogliatoio venga pulito, oppure a rimboccarsi le maniche, comprare le taniche, comprando il poco gasolio che serve a far funzionare una caldaia che grazie all’aiuto di pochi eletti riparte, dando un po' di sollievo, almeno per metà delle gare previste, a chi si sente pressato da responsabilità non proprie ma che evidentemente non pesano su chi dovrebbe vigilare.
Se questo è fare sport in maniera inclusiva, allora in tutti questi anni credo di non aver capito il senso di quelle famose tre parole che ancora aleggiano nell’aria senza una destinazione precisa.
Alessandro Pugi