Da qualche tempo in qua i nostri quattro lettori avranno notato che di tanto in tanto, con una certa continuità, pubblichiamo brani da I figli dei giorni di Eduardo Galeano. E’ lui stesso ad averlo concesso. In nome di una conoscenza di lunga data, nata da uno di quegli incontri casuali che lasciano segni indelebili e non si possono dimenticare. Anzi, che meritano di essere raccontati.
Lavoravo alla Testata Giornalistico-Sportiva della Rai. Era il primo maggio del 1996 quando partii per l’Uruguay per intervistare Oscar Washington Tabarez. La Rai era ancora ricca, abbastanza per spedire un inviato a Montevideo ad ascoltare in anteprima la voce dell’allenatore del Milan della stagione successiva. Dal canto mio, mi ero offerto, data l’insolita opportunità di attraversare l’Oceano e un innato senso del risparmio, di passare anche per una giornata a Buenos Aires, che è di fronte a Montevideo, e intervistare Carlos Bianchi, a sua volta ingaggiato dalla Roma. Due servizi al prezzo di uno, insomma.
Non potevo immaginare che quel viaggio avrebbe in qualche modo segnato la mia vita e quella di mia figlia Francesca. Io avrei incontrato il primo (e quale primo!) dei tanti scrittori che avrebbero orientato curiosità, interessi e professione degli anni successivi. Francesca avrebbe scoperto, dalle sue pagine, la passione per l’America Latina, dove oggi vive.
Ma andiamo con ordine. Partii da Roma avendo, ovviamente, fissato l’appuntamento con Tabarez, quello con l’operatore e il collegamento via satellite per trasmettere il servizio per Dribbling. Sembrava tutto a posto insomma. E appena arrivato a Montevideo chiamai casa Tabarez. “Mio padre non c’è – mi rispose la figlia, un po’ in imbarazzo – ma gli dispiace non poterle più rilasciare l’intervista. Il Milan gli ha chiesto di non fare dichiarazioni finché la notizia non sarà ufficiale.” Credo che chi mi avesse visto al telefono in quel momento avrebbe colto il sudore freddo e il pallore, segni più evidenti dello smarrimento di chi ha garantito al suo direttore un servizio che non potrà realizzare. Affitto un cellulare (all’epoca erano un lusso che neppure la ricca Rai poteva permettere a un inviato qualsiasi) e chiedo di farmi richiamare da Oscar Washington in persona, appena possibile.
Non potevo comunque arrendermi e tornare a mani vuote. Il primo atto del miracolo uruguagio avvenne in libreria, il luogo che più mi consola nei momenti peggiori. Nella mia esperienza c’è sempre stato un libro che mi è venuto incontro e mi ha indicato l’uscita della strada in cui mi ero smarrito. Il libro, mentre cercavo lumi sul calcio e l’Uruguay, fu, in quel caso El fútbol al sol y sombra, l’autore, fin lì a me del tutto ignoto, Eduardo Galeano. Lo divorai in alcune ore nella notte, e ne fui conquistato. Al risveglio chiamai la casa editrice per un contatto con lui. Lui, cortesemente, mi diede appuntamento nel pomeriggio stesso. Così, nelle mie prime 24 ore in America Latina mi ritrovai, ancora quasi inconsapevole, a casa di uno dei miti della letteratura sudamericana … a parlare di sport, argomento più che degno in un continente dove corpo e mente non stanno su fronti opposti come nella “colta” Europa.
Quando incontri nell’altro immediata apertura, cordialità, disponibilità, è facile dare il meglio di sé e la mia prima intervista a uno scrittore filò via per una mezz’ora come un incontro con chi conosci da sempre. La sua risposta alla prima domanda, semplice e neutra (“perché un Paese come l’Uruguay, con tre milioni di abitanti, ha una storia così importante nel calcio mondiale?”) resta la più sorprendente e creativa di quante io abbia mai ricevuto: “In Uruguay – disse con aria seria e compita Galeano – nei reparti maternità degli ospedali, quando nasce un bambino, la donna apre le gambe, il bambino si affaccia al mondo e ancora con gli occhi chiusi –aggiunse mimandone l’azione – grida Gooool. Per questo nei reparti maternità c’è tanto rumore: sono tutti i bambini che gridano Gol.”
Il servizio – me ne resi conto subito – ci sarebbe stato comunque. Si parlò di Tabarez e di Berlusconi, del calcio come industria e come passione popolare e di altro ancora, in un dialogo di mezz’ora che si concluse (e anche quella fu una “prima volta”) con un abbraccio che parlava di fraternità e intesa. Quando il giorno dopo incontrai anche l’allenatore, che oggi guida la Nazionale dell’Uruguay, la sua intervista divenne solo parte accessoria di un servizio che aveva al centro Eduardo Galeano.
Solo a Roma mi accorsi che la frase sulla maglietta che avevo preso per Francesca in un mercatino, con l’immagine del continente americano rovesciato, il nord al posto del sud, il sud del nord, era di Galeano: “I tamburi annunciano la buona notizia: gli invasori non sono immortali”.
Cominciammo entrambi a leggere i suoi libri, io partendo da Il libro degli abbracci, lei da Le vene aperte dell’America Latina. Da allora lei ha seguito la calamita di quel continente, io non mi perdo più nulla di ciò che Eduardo scrive e lo consiglio a tutti. Ci siamo rivisti altre volte nei suoi viaggi in Italia. Quando ho letto il suo I figli dei giorni e ho scoperto che per ogni giorno dell’anno ci offre una delle sue perle di scrittura, ho iniziato a pubblicarne, con la sua esplicita e convinta autorizzazione, su elbadipaul. E in cima alla hit-parade dei miei libri preferiti metto ancora, da anni, Il libro degli abbracci.
Luciano Minerva http://www.elbadipaul.it/