Paolo Guidotti è nato a Le Grazie di La Spezia, abita a Piombino, lavora all’Elba. Costruttore navale diventato architetto, ha inserito da qualche anno nel suo quotidiano la pittura. Qui a Portoferraio è alla sua seconda personale, che ha intitolato Mi sono perso in dàrsena, parafrasando il titolo, Mi sono perso a Genova, di un noto libro del concittadino Maurizio Maggiani.
Non starò a sottolineare le affinità tra mostra e libro, dal momento che sono dichiarate. Mi limito a osservare che perdersi, in entrambi i casi, significa, in realtà, ritrovarsi attraverso un’infinità di segni sul filo di una dimensione onirica. I segni di Guidotti, per noi che conosciamo la dàrsena, sono praticamente gli stessi che declinano le nostre case. Voglio dire che ci sono familiari e che li viviamo come segmenti di un ambiente da cui non ci aspettiamo sorprese, mentre continuano a darci emozioni. Essi, invece, sono pura meraviglia per Guidotti che, d’altra parte, condivide le nostre emozioni. Questo per fissare uno stato d’animo, una posizione, da cui partire per leggere la mostra.
Dopodiché possiamo cercare i fondamentali del suo specifico artistico, che ci sembra di poter cogliere all’interno di un discorso cominciato negli anni Cinquanta, divenuto progressivamente complesso e perfino contraddittorio, nel quale brillano i nomi di Fautriez, di Tapies e soprattutto del nostro Burri. E’ il discorso che vede diventare i materiali protagonisti dell’opera d’arte, all’interno della grande lezione dell’Informale.
Un lavoro, tra quanti Guidotti ne espone, che documenta esemplarmente la pittura materica è quello che riproduciamo di seguito.
Su un fondo di legno non trattato si dispongono, più o meno stratificati, dei profili geometrici realizzati con terre e sabbia divisi da una linea costituita da una tavoletta grezza, da un’estremità della quale si alza il prospetto di una casa fissato nel ritaglio di un’istantanea. Siamo davanti a una dàrsena – cielo, verticalità e orizzontalità del costruito, profili di barche, riflessi - riproposta in una sostanziale unità tra spazio simulato e spazio planare, che si appoggia a una scala cromatica fatta di sfumature, velature, ombre opacità di verde, azzurro, braganza, latte. L’antico costruttore vi mette anche il vivo ricordo della propria manualità, affidandola a una suggestione di incastri, cui chiama a partecipare la stessa cornice.
Le variazioni sul tema risultano tutte ugualmente intriganti, in un sapiente ‘dosaggio’ di materiali, per cui un’assoluta semplicità richiama un elaborato più ricco e complesso, dove domina la carta. La trama peculiare della spazializzazione e della temporizzazione che si ripete in ciascuna di esse è oggettivamente una pista per tornare alla ribellione, alla denuncia, alla provocazione che fu la prima anima dell’Informale, verso la quale, forse, se ne conosciamo bene la carica umana e la sensibilità, tende tuttora l’artista che, in ogni caso, si muove in un recinto ideologicamente non neutrale, invidiabile porto di inquieta salvezza, data la deriva civile e culturale in cui ci tocca vivere.
Gianfranco Vanagolli