Era una caldissima giornata d’agosto, quando Irene venne al mondo, dopo un’attesa protrattasi per settimane. Quel nome, che significa pace, l’avevano scelto da subito, senza esitazione, i suoi genitori, come un talismano di serenità, contro le inquietudini private e collettive della vita. Come usava allora, sua madre la fece nascere a casa, non all’ospedale del capoluogo, che dal paesino isolano era lontano trenta chilometri: la “colse” la levatrice del paese, che faceva la spola tra la sua abitazione e quella di un altro nascituro.
Il travaglio fu lungo e estenuante ma finalmente la bambina s’affacciò alla luce, una luce e un calore troppo intensi, se poco dopo le venne una febbre che preoccupò non poco puerpera e famiglia. Il padre non c’era, era imbarcato su una nave mercantile che navigava nel Mediterraneo, portando nella sua generosa stiva ogni tipo di merce, dal sale agli animali da circo. Quando il marconista lo avvisò che era stata appena telegrafata la notizia della nascita della primogenita, si trovava al largo della Sardegna: conobbe sua figlia soltanto un mese dopo.
Quando Irene aprì i suoi occhi sul mondo, erano i primi anni cinquanta, la guerra era finita da poco e questo lo si sentiva nell’aria e si avvertiva nelle difficoltà della vita di tutti i giorni, anche se a lei non mancò mai nulla, dall’abbondante latte di sua madre che se la tenne al seno fino all’anno, alle pappine di grano con cui fu svezzata gradualmente.
Ma l’Italia tutta, allora, si leccava le ferite, non ancora cicatrizzate: città come Livorno -dove gli elbani avevano spesso motivo d’andare, per l’ospedale, per il collegio dei figlioli o per il catasto- convivevano giornalmente con le eloquenti testimonianze della tragedia appena trascorsa, quei cumuli di macerie che ingombravano i loro quartieri e che sarebbero in parte sopravvissuti fino agli anni sessanta.
All’Elba non si era sofferto meno che altrove: Portoferraio era stata pesantemente bombardata da tedeschi e alleati, molte famiglie piangevano ancora i loro morti e la perdita di beni e abitazioni; il destino dello stabilimento era gravemente compromesso e il futuro economico dell’isola quanto mai fumoso. Si guardava con grande preoccupazione ai giorni a venire. Negli altri paesi si andava avanti con altrettante incertezze e patemi d’animo: le miniere offrivano, nella parte orientale, un pane che sapeva di ferro e di sale, guadagnato con fatiche disumane, a volte veramente amaro, ma pur sempre pane.
Invece a Marciana, Chiessi, Pomonte, c’era soltanto l’agricoltura: le vigne lambivano quasi la spiaggia o si arrampicavano, con i terrazzamenti, su per le colline, fin dove si spingono le capre, insieme alla zappa testarda del contadino. Nel campese, dove certi litorali erano ancora macchiati del sangue versato durante lo sbarco, -- quell’operazione Brassard che aveva allontanato i tedeschi dall’isola, ma ad un prezzo altissimo per le violenze perpetrate dai liberatori- era attiva la lavorazione del granito e, grazie alla bellezza delle spiagge, qualche timida forma di turismo. L’isola era comunque tutta coltivata, “un giardino” dicevano i vecchi, in quanto dovunque si cercava di far fruttare la più piccola zolla di terra o per viverci interamente o per integrare un magro salario: le viti e gli ulivi vestivano i fianchi delle colline, il grano imbiondiva le piane, di giugno, e si mescolava qua e là al rosso dei papaveri, l’aria profumava di zàgare e quei fiori d’arancio servivano alle spose per i loro bouquet.
Dai porti partivano bastimenti carichi del vino del Marcianese e i piroscafi che traghettavano gli isolani in continente e viceversa: il Portoferraio, il Portazzurro, il Pola. Solo nel capoluogo i viaggiatori salivano dalla banchina direttamente sulla nave; negli altri paesi costieri era un barcone a portarli al largo, dove la nave, all’àncora, li aspettava. Fu la scena che più colpì Irene, ancora piccolissima, la prima volta che andò a Piombino.
-Mamma, mamma, andiamo addosso alla nave!!! Ho paura!- e scoppiò a piangere.
In effetti, la Laura, piena di gente, sembrava proprio sfidare quella meraviglia bianca, quasi ferma per la sua grandezza, nel perpetuo moto del mare, e andarle sotto. Irene chiuse gli occhi e si strinse alle gambe di sua madre, sentì poi che veniva presa in braccio e issata sopra: ora era sulla nave, finalmente al sicuro, e il barcone s’allontanava salutando festoso.
1. continua
Maria Gisella Catuogno