Quando un dibattito tocca e fa suonare le corde della satira, è segno che occorre occuparsene seriamente. Il giorno dell'inaugurazione della cosiddetta 'Zecca degli Appiani' in quel di Marciana, uno studioso, noto anche per le sue battute fulminanti, mentre ammirava lo straordinario complesso sotterraneo scavato nel granito mi si avvicinò e - evidentemente non troppo convinto dalla definizione di 'zecca' - mi sussurrò: “Sensazionale, un ipogeo etrusco nuovo di zecca!”. Ancora più incisiva è stata la vignetta di Yuri raffigurante un cane che si gratta con decisione: “.. Occheffai .. ti gratti? // .. dé, no ... e ciò una zecca di nulla nell'ipogeo ...”.
Lasciati da parte gli accenti ironici, che in casi come questo non guastano, mi preme rilevare che la questione, almeno così come è stata presentata al pubblico in questi giorni (ipogeo etrusco oppure zecca?), è stata impostata male. Allo stato attuale, infatti, nessuno dubita più che quel monumento sotterraneo sia la chiara testimonianza sepolcrale voluta e lasciata, a dimostrazione del suo potere tecnologico e socio-economico, da un importante personaggio di circa 2.300 anni fa, forse uno dei Signori elbani della produzione e del commercio del ferro. Una convinzione del genere ha contagiato perfino i progettisti del museo della zecca, i quali nella locandina di presentazione della loro realizzazione non mancano di sottolineare non solo che “ La Zecca di Marciana insiste su una struttura ad ipogeo scavata in un banco di granodiorite, identificabile come una sepoltura gentilizia d'epoca ellenistica datata fra il IV e il I secolo a. C.”, ma anche che “La planimetria è quella tipica di sepolture ipogee etrusche”. Più chiari di così ...
I suddetti professionisti pensano però che la tomba (tale toponimo - guarda caso - nel catasto leopoldino del 1840 qualifica tutta l'area e la soprastante via) sia stata riutilizzata come zecca a partire dal tardo XVI secolo. Anche se su tale ipotesi nutro profonde perplessità perché l' indizio (uno solo) che dovrebbe sostenerla è troppo flebile e controverso, tuttavia debbo convenire che i fautori del riuso in epoca appianea hanno il diritto di tenersi care le proprie, soggettive opinioni.
Nei giorni scorsi sono ritornato a visitare la tomba, prima con uno degli ultimi maestri della scalpellatura del granito e poi con due docenti universitari. Quando, percorso il dromos, ti fermi nell'atrio e sei praticamente al centro dell'ipogeo, all'ammirazione per l'imponenza e la perfezione dell'opera si associa subito lo stupore per il fatto che, nel progetto di valorizzazione, priorità e preferenza sono state accordate a un aspetto (ossia la supposta zecca appianea) dall'interesse storico-archeologico marginale e residuale rispetto al complesso sotterraneo etrusco che, senza usare iperboli, si configura come testimonianza unica e di pregio assoluto nell'ambito dei monumenti consimili in Toscana e nell'intera Etruria.
Anche a voler prescindere da quei nuovi e discutibili ingombri metallici che spezzano l'unità e la suggestione dell'ipogeo, non si può far finta di non vedere che in lasso di tempo relativamente breve (dodici mesi appena dalla scoperta e dalla prima analisi) le superfici di tutti gli ambienti appaiono impregnate, ex novo, di una fortissima umidità che ha innescato un processo di degrado tale da essere facilmente percepibile perfino dai non addetti ai lavori. Le finisssime scalpellature che decorano volte e pareti, per esempio, rischiano di sgretolarsi e di tramutarsi, per di più in poco tempo, in una massa di granuli sabbiosi. Un anno fa lo stato di conservazione della tomba era soddisfacente, ora lo strato roccioso superficiale è preda di una degenerazione galoppante e si fa strada un moto di viva preoccupazione che sento il dovere di rendere noto attraverso la stampa. Ma il mio compito finisce qui. Cercare le cause e trovare i rimedi spetta ad altri. Quanto prima possibile.
Michelangelo Zecchini